le storie cantate

 

Erede di un’antichissima tradizione che dai rapsodi greci e dai trovatori medievali è giunta fino ai giorni nostri, il cantastorie è una figura centrale nella cultura popolare. Cronista, saltimbanco, poeta, musicista, clown, il cantastorie cantava “storie” drammatiche e commoventi, spesso attinte dalla cronaca o dall’attualità, che venivano illustrate nei “fatti”, i fogli volanti che riproducevano il testo della “canzone” e le immagini degli episodi più salienti della storia.

Alcune tipografie, in particolare in Emilia Romagna e in Lombardia, si erano specializzate nella produzione dei materiali per i cantastorie, come i fogli volanti, i pianeti della fortuna, le “zirudelle”, i canzonieri. Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, fra queste tipografie figurava con un ruolo particolarmente importante la “Reggiolese”, fondata a Reggiolo da Adolfo Confetta nel 1930 e attiva fino ai primi anni ’40. Confetta ebbe la felice intuizione di iniziare la stampa di fogli volanti di grandi dimensioni. Così lo ricordano i cantastorie: “È stato quello che ha veramente capovolto il sistema di stampa: dai soliti foglietti piccoli ai fogli giganti, insomma un colpo d’occhio per il pubblico meraviglioso. È quello che ha creato il Calendario Canzoniere”.

Tra i temi preferiti dal pubblico delle piazze c’erano prima di tutto i drammi amorosi, seguiti dai fatti di cronaca nera locale e dalle storie di banditi e briganti famosi. Più esigua fu la produzione di canzoni di soggetto religioso, dato che queste ultime circolavano solitamente per via diversa da quella dei cantastorie e cioè attraverso le parrocchie e le confraternite di paese.
Non mancano nemmeno i riferimenti a fatti storici, che mettevano la gente a conoscenza delle grandi imprese, delle guerre o degli episodi ad esse legati, dalla guerra d’Abissinia contro Menelik, agli attentati anarchici come quello al re Umberto, dalla guerra di Libia, all’assassinio di Matteotti, dalla condanna a morte sulla sedia elettrica di Sacco e Vanzetti agli episodi della guerra civile spagnola, dalla cattura e morte di Cesare Battisti alla conquista dell’Etiopia… Subito dopo la Liberazione si assiste ad una proliferazione di testi dal sapore antifascista e di brani che echeggiavano ironicamente i contrasti politici del secondo dopoguerra: dispute tra la moglie democristiana e il marito comunista, commenti sulle elezioni politiche, cenni al Patto Atlantico o commenti sulla scomunica comminata al PCI dal Vaticano.
Il fatto, l’episodio o l’idea venivano estrapolati dai quotidiani e successivamente messe in versi dal cantastorie che colorava il testo e la narrazione in senso drammatico o ironico, a seconda del proprio spirito e del proprio stile.
L’elemento spesso polemico e moralizzante della narrazione, nei toni che oggi definiremmo di satira politica e sociale, erano giudicati dall’autorità un elemento sovversivo e pericoloso, perché ben si sa quale ruolo i cantastorie avessero nell’esprimere il malcontento popolare e nel diffondere a largo raggio e rapidamente l’informazione dei “fatti” tra gli strati più bassi della popolazione.
Si ricorda ancora, a tale proposito, l’episodio del cantastorie “Taiadèla” che in veste di ironico contestatore del fascismo cantò e suonò la canzone Vincere! indietreggiando, finendo per essere più volte ammonito dalle autorità del regime.

Taiadela e Nadir

Il “comico” Dario Mantovani, detto “Taiadèla”, ed il clarinettista Nadir Bernini furono tra i protagonisti dello spettacolo di piazza dalla seconda metà degli anni Venti alla fine degli anni Quaranta. Di origine veneta, i due raccolsero un vasto consenso popolare anche nella Bassa Modenese, grazie alla loro innata abilità di far presa sull’uditorio con canzoni, macchiette e contrasti ispirati sia ai grandi fatti della cronaca sia agli avvenimenti di paese che meglio si prestavano ad essere raccontati in forma ironica e grottesca.
Dario Mantovani ed il compagno di lavoro Nadir Bernini nascono a Ceneselli di Rovigo rispettivamente il 15 agosto 1904 ed il 29 gennaio 1902.
La pesante situazione economica che caratterizza il periodo della loro giovinezza, unita ad un forte desiderio d’indipendenza, li conduce ben presto all’attività di suonatori e cantanti di strada.
Nadir Bernini, non vedente, è di famiglia contadina. Viene avviato allo studio del clarinetto da un compaesano, il maestro Furini. Pur non conoscendo la musica Nadir acquisisce una più che sufficiente padronanza dello strumento e inizia a farsi apprezzare come solista.
Dario Mantovani, figlio di un arrotino a suo tempo emigrato in America, appartiene ad una famiglia già nota col soprannome di “Taiadèla” che è sempre alle prese con assillanti problemi finanziari. Per sbarcare il lunario, Dario canta accompagnandosi da autodidatta con la fisarmonica nelle feste da ballo, ma si distingue più per le sue doti umoristiche che per quelle musicali.
Taiadèla e Nadir, per tentare di risolvere congiuntamente le loro difficoltà, iniziano a suonare nelle osterie dei paesi vicini e la speranza di affrontare più dignitosamente la vita col mestiere di cantastorie, li stimola a frequentare fiere e mercati. I due acquistano perciò un tandem e, benché privi di esperienze, si trasformano in venditori di canzonette. Esibendosi in diverse località della Padania, imparano a conoscere i gusti popolari e lo stile e le trovate dei colleghi.
Il successo arriva dopo qualche anno, quando decideranno di impostare il loro spettacolo in chiave umoristica. Il Bernini raccoglie il pubblico (fa “treppo”) eseguendo magistralmente brani musicali e in seguito Taiadèla attacca con macchiette che stanno tra l’avanspettacolo e il numero clownesco. La comicità di quest’ultimo è semplice, quasi istintiva, e prende di mira episodi e personaggi della realtà di ogni giorno: il mediatore di cavalli, il ragazzetto di paese, il contadino, il garzone.
Fatta di sacrifici e di piccoli sotterfugi, anche la loro vita sul tandem diventa oggetto di battute umoristiche, ma ben presto il successo permetterà loro di acquistare una motocicletta e successivamente un camioncino.
Negli anni Trenta la loro fama è grande in tutta la Padania. Con lo scoppio della II guerra mondiale il gruppo, a cui si sono aggiunti i figli di Taiadèla Dino e Delfino, frequenta i mercati veneti, modenesi e ferraresi e il Mantovani si distingue come ironico contestatore del fascismo: canta e suona la canzone Vincere! indietreggiando, finendo per essere più volte ammonito dalle autorità del regime.
Nel dopoguerra si ritira Nadir Bernini, a causa dei continui dissapori con Taiadèla, che continua ad esibirsi assieme ai figli che suonano la fisarmonica e la batteria e spostandosi su una vettura americana. Nel 1949, amareggiato dai continui richiami per le sue barzellette a sfondo politico, Taiadèla abbandona l’attività di cantastorie e allestisce un serraglio per gli spettacoli del Luna Park. Muore nel 1950 in un incidente stradale, mentre Nadir Bernini, che per anni si è dedicato alla musica da ballo, muore nel 1963.
(da Borghi G. P. e Vezzani G., La compagnia canzonettistica “Taiadèla”, in La bassa modenese. Storia, tradizione, ambiente, quaderno n. 2. Villafranca di Modena, 1982)

Mario Biolchini detto Radames

Mario Biolchini nasce a Mirandola nel 1886. Nel 1892 perde il padre; qualche anno più tardi lascia la cittadina della bassa con la famiglia e si stabilisce a Modena. Nulla sappiamo dei suoi studi e della sua attività nel primo decennio del Novecento.
Una sua lontana parente torinese disse di lui: “…Mia madre ottantatreenne me ne ha parlato come di un figlio della sorella di sua suocera (…) Mi ha detto che era stato un gran signore, ma che cantava per le piazze, cieco e male in arnese, accompagnato da un cane (…) Era un uomo mite e corpulento”.
Alla fine della Grande Guerra e all’inizio degli Venti è già un frequentatore delle piazze modenesi e di tutta la Padania. Suona il violino, ma affascina e commuove l’uditorio soprattutto con le sue straordinarie capacità di declamatore di episodi di cronaca.
Il mondo contadino di quel periodo è sconcertato dalle imprese della banda Adani e Caprari, una banda di briganti modenesi, ed il Biolchini raggiunge l’apice del successo popolare componendo una ballata che celebra la cattura dei due briganti.
Il Biolchini adottò il sistema di affidarsi con un contratto ad un editore come il Campi di Foligno che gli stampava i fogli ma che poi lo utilizzava come rivenditore della propria produzione nelle piazze e nelle fiere dove andava ad esibirsi. Collaborò anche con la Tipografia Reggiolese di Reggiolo (Reggio Emilia) e con la Marchi e Pelacani di Fiorenzuola d’Arda (Piacenza).
Dotato di una vista assi debole, ragion per cui era erroneamente ritenuto cieco, il Biolchini ha molte difficoltà a spostarsi da una piazza all’altra e si fa aiutare dal cantante e chitarrista Anselmo.
Il pubblico reggiano, modenese e bolognese lo avrà fra i suoi beniamini fino alla fine degli anni Venti. Con la crisi economica del 1929 infatti l’esistenza degli artisti ambulanti diventa stentata e il Biolchini si trasferisce in Romagna, a Faenza, alla ricerca di centri contadini più remunerativi e meno frequentati. In quel periodo si esibisce con altri cantastorie tra cui Gaetano Cagliari Dareggio, poi forma il Terzetto Romagnolo assieme a Giuseppe Meandri e Alfredo Solvagni detto “Caserio”. La discreta tranquillità economica raggiunta in questi anni va in declino durante la II guerra mondiale; divenuto completamente cieco, si affida alla carità pubblica suonando il violino nelle osterie. Muore il 1 aprile del 1943.
I suoi componimenti, firmati spesso con lo pseudonimo “Radames”, sono stati cantati e divulgati da molte compagnie di cantori.
(da Borghi G. P. e Vezzani G., O popol modenese, ad ascoltar v’invito… Appunti per una ricerca sul cantastorie Mario Biolchini (Radames), in La Bassa Modenese. Storia, tradizione, ambiente, quaderno n. 1, Villafranca di Modena, 1982)

Gaetano Dareggio

Cantastorie degli anni Trenta-Quaranta e presidente dell’Associazione Italiana Cantastorie dal 1952 al 1956, voce tenorile, creatore e narratore di fatti, storielle a doppio senso e barzellette, ex artigiano elettricista ed ex cronista lirico, Gaetano Cagliari è apparso nel mondo dei cantastorie dell’Emilia-Romagna negli anni della terribile crisi del 1928-1929. Riuscire a guadagnarsi la vita era la massima aspirazione e a questo scopo le fiere e i mercati erano un punto di lavoro, di incontro e di scontro dei cantastorie ambulanti. Cagliari “Dareggio” in quegli anni si trasferì a Cesena, essendo la Romagna meno battuta, ma sbarcare il lunario era un’impresa ardua. Era necessario saper cantare forte, suonare bene, far ridere e soprattutto avere delle buone storie da raccontare. Nacque così dalla fantasia romantica del Cagliari il racconto in versi “Il Redivivo”, che divenne il suo capolavoro e ispirò tante storie di altri compositori fino al secondo dopoguerra. Raccontava di un disperso della I guerra mondiale che, ritenuto morto, ritornava a casa dopo 16 anni e del commovente incontro con la figlia che non l’aveva mai conosciuto.
Alla fine dell’”imbonimento”, che durava circa 10 minuti, il Cagliari aveva tanto commosso il pubblico che la gente aveva i soldi pronti in mano per comprare la “storia”, stampata su un foglio a mezza pagina di giornale.
(da Borghi G. P. e Vezzani G., C’era una volta un “treppo”… Cantastorie e poeti popolari in Italia Settentrionale dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1988)

La Reggiolese

La Tipografia La Reggiolese di Reggiolo (Reggio Emilia) fu fondata tra il 1930 e il 1931 da Adolfo Confetta che la fece funzionare fino alla fine della II guerra mondiale, trasferendosi poi a Mantova dove sembra che abbia aperto una cartoleria. Nei 15 anni di attività stampò fogli volanti per i cantastorie, canzonieri, almanacchi, lunari.
Lo stesso Adolfo Confetta era compositore di storie e canzoni in versi e non disdegnò di cimentarsi anche come disegnatore per illustrare con uno stile elementare ma vivace alcuni fogli di cantastorie.
Le immagini, che fungevano da testate alle canzoni in versi, erano per lo più realizzate in xilografia, tirate in nero o, più raramente, con sfumature di pochi colori. In esse venivano raffigurati i fatti salienti del racconto, concentrati in situazioni-tipo come l’arresto, la fuga, l’omicidio, che per la loro valenza simbolica e per l’impianto essenziale, potevano essere riutilizzate in altri fogli e per altre storie. A volte al singolo foglio si associava la stampa di un libretto di piccole dimensioni con il testo del fatto narrato e una copertina realizzata in carta colorata che riproduceva in piccolo una delle immagini del foglio.
Tra il 1945 e il 1946 la Tipografia Reggiolese  fu rilevata da Don Fermi, parroco di Reggiolo, col proposito, poi naufragato, di “riavviarla”. Il materiale della tipografia andò in gran parte disperso ad eccezione delle matrici originali dei Pianeti della Fortuna, di alcuni torchi e dei caratteri in piombo, oggi conservati in Reggiolo dal titolare della Tipografia Erminio Lui che rilevò l’attività nel 1946.
Adriano Callegari: “Il 1931 è l’anno del Calendario Canzoniere e questo l’ha creato un certo Confetta Agostino [sic] di Reggiolo che attualmente ha una bellissima cartoleria a Mantova e quando andiamo parliamo di cantastorie e il suo cuore si allarga di gioia. E’ stato quello che ha veramente capovolto il sistema di stampa: dai soliti foglietti piccoli ai fogli giganti, insomma un colpo d’occhio per il pubblico meraviglioso”. (da Il Cantastorie, n. 16, agosto-novembre 1968)
… ricordo che ero un ragazzino, otto o dieci anni, andavo a prendere i calendari in tipografia… era quasi una premonizione, non sapevo neanche di arrivare a fare il tipografo. Andavo a prendere i calendari di Taiadela e piegavamo i calendari della Reggiolese che poi vendevano sulle piazze. Mi ricordo che c’era una vignetta ideata da Confetta: i tre porcellini, non erano altro che Roosevelt, Churchill e Stalin, erano nomi del momento e quella storia lì mi è rimasta impressa. Un’altra era in italiano e in dialetto romanesco, ciò vuol dire che aveva un mercato anche là, era fatta appositamente per il Lazio. Era sempre Confetta che stampava, musicava, illustrava, scriveva anche delle canzoni. (da un’intervista a Erminio Lui, Reggiolo 5 ottobre 1996)
A dodici anni hanno cominciato a metter giù le marchette. Arrivavano dalla Sardegna i telegrammi per mandar su quella roba lì, dalla Sicilia, dalla Calabria. Veniva Taiadela e anche un altro di Modena [Mario Biolchini “Radames”]. Verso il ’30 ho cominciato, adesso ho 79 anni. Si stampava anche canzoni d’epoca e poi c’erano anche le canzoni, le storie, i fattacci e poi i pianeti. Si stampavano quintali di carta tutta stampata a mano, si faceva tutto, tagliare. Confetta illustrava, disegnava, faceva anche della musica, delle canzoni. Si lavorava giorno e notte, sempre a buttar su, settecento, ottocento, mille copie all’ora. Si faceva la composizione e poi via una macchina di quelle vecchie, ma sempre andava giorno e notte. Eravamo io, un altro che è a Milano. Dopo che sono andato via, sono entrati altri due ragazzi qua di Reggiolo. Sono andato militare nel ’38 e ho fatto otto anni, a Palermo, prima della guerra c’erano dei cantastorie anche là, poi dopo son venuto su con l’esercito, mi sono congedato a Savona. Dopo ho continuato a lavorare in tipografia, quando son venuto a casa sono andato dagli Artigianelli a Reggio. Quando c’era Confetta Taiadela veniva tutte le settimane quando c’era il mercato, venerdì e anche delle volte nei festivi, alla festa, per la fiera. C’era anche Piazza, tanti, ma buona parte era sempre Taiadela con l’orbo che suonava il clarinetto, in bicicletta e anche in moto e poi anche in macchina. Poi quando è morto veniva solo Piazza. (da un’intervista a Giglioli Fermo “Bertino”, operaio della Tipografia La Reggiolese, Reggiolo 5 ottobre 1996)

 

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