codici

La Biblioteca Panizzi è attualmente l’istituzione nella quale è ospitata la maggioranza dei codici miniati esistenti a Reggio Emilia, mentre isolate, ma non irrilevanti testimonianze, sono anche presso l’Archivio di Stato, l’Archivio della Basilica di San Prospero e la Biblioteca del Seminario Diocesano.
Il collocarsi al confine fra tardogotico e Rinascimento, è la caratteristica principale della maggior parte dei 35 codici – cioè libri manoscritti esclusi i corali – conservati presso la Panizzi e qui censiti e, in particolare, di quei pochi assegnabili con certezza ad un ambito di provenienza locale.

Fra questi ultimi, il più antico è un Breviario (Mss. Vari G 47), realizzato negli anni 1440-1450 circa. L’origine è confermata dalla presenza in esso dei testi liturgici delle festività dei santi locali, mentre le sezioni miniate sono molto simili ad altre realizzate in ambito locale. Gli elementi comuni sono dati dal frequente impiego di motivi floreali particolarmente carnosi e dal motivo dell’intreccio a stella a riempire il fondo della lettera incipitaria. L’ambito stilistico è quello del tardogotico padano, tipico degli anni ’40 del secolo XV.
Un Lezionario (Mss. Regg. C 407) costituisce uno dei pochi esempi sicuri di codice liturgico rinascimentale di ambito reggiano ed è anche interessante perché testimonia, in area reggiana e nel periodo 1460-1465, la compresenza di elementi tardogotici riferibili sia a una specificità autoctona sia a derivazioni ferraresi e lombardeggianti.
La Miscellanea medica (Mss. Vari A 59/1) è uno dei pochi codici che possa vantare un’esecuzione reggiana certa e documentabile. La decorazione è di scuola rinascimentale ferrarese. Un caso analogo è il Mss. Vari A 59/2, realizzato negli anni 1471-1473 dallo stesso copista per lo stesso committente.
A testimoniare ancora gli influssi ferraresi sulla miniatura reggiana è la Biblia sacra (Mss. Vari B 119), detta Bibbia Arlotti. Il codice reca in apertura un’iniziale figurata vicina allo stile di Giorgio d’Alemagna, mentre un’altra iniziale figurata e le cinquantacinque eleganti iniziali decorate sembrano vicine a Guglielmo Giraldi.

Un caso atipico è l’Antiquarium (Mss. Regg. C 398) di Michele Fabrizio Ferrarini, una delle più ricche sillogi antiquariali conosciute. Nel frontespizio architettonico a foglia d’oro e nei disegni delle epigrafi sembrano convivere influssi padovani e bolognesi che, insieme ad elementi documentali esterni, giustificano l’ipotesi di un contributo di Giovanni Antonio Aspertini.
Fra i codici di provenienza non reggiana, meritano di essere menzionati la Miscellanea di astronomia e astrologia (Mss. Vari F 12), miniata tra la fine del secolo XIV e la prima metà del secolo XV; il De re publica di Tito Livio Frulovisi (Mss. Turri F 92), codice di presentazione dedicato a Leonello d’Este, vergato da Michele Salvatico e miniato da Cristoforo Cortese negli anni intorno al 1434-1436; infine il Dialogus et orationes quas traduxit di Leonello Chiericati (Mss. Turri F 73), altrettanto elegante codice vergato in grafia umanistica dal copista Bartolomeo Sanvito nel 1463 e dedicato a Niccolò d’Este, figlio di Leonello. Ultima acquisizione, fra i codici miniati della Panizzi, è la Expositio in Cantica Canticorum di Onorio d’Autun (Mss. Turri D 2), esempio di decorazione libraria definibile con certa approssimazione ‘romanica’ e collocabile nell’area francese della seconda metà del XII secolo.
Infine, gli Officia dei santi patroni e protettori di Reggio Emilia (Mss. Turri G 66) rappresentano un singolare caso di reimpiego, in un codice cartaceo della fine del secolo XVII, di miniature provenienti da codici ben più antichi. Il manoscritto, redatto in area reggiana, presenta l’applicazione, con modalità “mimetiche” ben studiate, ma non sempre nel contesto appropriato, di quattro iniziali figurate e diciannove decorate, in alcuni casi di qualità non trascurabile, asportate da diversi codici, fra cui uno bolognese della metà del secolo XIV e gli altri quattrocenteschi, di probabile provenienza ferrarese e reggiana, o più genericamente emiliana.
Al corpus di codici miniati qui presentati e descritti, bisogna poi aggiungere alcuni casi che, pur non rientrando strettamente in questa categoria, presentano caratteristiche che li rendono comunque degni di essere segnalati.
Sono da ricordare, per l’importanza dell’apparato illustrativo: il Mss. Turri E 52, il poema di Donizone, Acta comitissae Matildis, databile al XIV secolo e arricchito da dieci disegni entro riquadri che riprendono l’iconografia del codice Vaticano Latino 4922 del 1115 (la versione reggiana fu scritta da uno “Zanelinus”; cfr. Fava 1932, p. 187; Bertoni 1932, p. 380; Ropa 1977, passimWiligelmo e Matilde 1991, pp. 644-648, Zanichelli); il Mss. Vari D 118, un’Haggadah di Pesach, del XV secolo, senza interventi a pennello ma con una bella scritta incipitaria in oro a 9r; il Mss. Vari E 134, Ughetto Contardo, Disputatio facta cum iudaeis, del XIV secolo, che mostra a 1r quella che si può azzardare essere stata una lettera arricchita da un fregio sui quattro margini del foglio: ma tutto l’intervento a pennello venne completamente asportato.
Tra i codici con una decorazione esclusivamente a inchiostro di qualche rilevanza, ricordiamo i Mss. Regg. C 408Hymni ecclesiastici, secoli XIII-XIV; Mss. Turri F 39, Guido da Monte Rochii, De instructione neofitorum, 1430, e Mss. Vari C 67, Niccolò da Lira, Postilla super Testamentum Novum, secolo XIV.
Numerosi sono i codici che presentano spazi bianchi per l’esecuzione di lettere a pennello (o a inchiostro), poi non eseguite: alcuni mostrano le relative letterine “di attesa”. Da segnalare, infine, il Mss. Vari G 46, un Breviarium, che non presenta più alcun intervento miniato; lo si ricorda qui per la notizia – inserita nel ms. da una nota del direttore Ugo Gualazzini – relativa alla presenza di un’abbondante decorazione, ora asportata. Dalla tipologia scrittoria e codicologica, si può pensare a una datazione attorno alla metà del XV secolo, o poco precedente.

Mss. Regg. A 41/1 | Mss. Regg. C 147/25Mss. Regg. C 398 | Mss. Regg. C 399 | Mss. Regg. C 407 | Mss. Regg. F 170 | Mss. Regg. F 393 | Mss. Turri C 17 | Mss. Turri C 72 | Mss. Turri D 2 | Mss. Turri D 81 | Mss. Turri E 18 | Mss. Turri F 73 | Mss. Turri F 92 | Mss. Turri F 120 | Mss. Turri F 129 | Mss. Turri G 66 | Mss. Vari A 58 | Mss. Vari A 59/1 | Mss. Vari A 59/2 | Mss. Vari B 114 | Mss. Vari B 118 | Mss. Vari B 119 | Mss. Vari C 27 | Mss. Vari D 19 | Mss. Vari E 27 | Mss. Vari E 117 | Mss. Vari E 121 | Mss. Vari F 12 | Mss. Vari F 13 | Mss. Vari G 1 | Mss. Vari G 47 | Mss. Vari G 48 | Mss. Vari G 157 | Mss. Vari G 164


Mss. Regg. A 41/1

Albertano da Brescia, Tractatus, [1410-1430 ca.]


I (Inicium) – c. 1r

L’unica iniziale decorata presente in questo codice mostra un chiaro apparentamento al repertorio emiliano del periodo di passaggio tra XIV e XV secolo: più precisamente, si identifica la possibilità di un’esecuzione in area bolognese, per la particolare carnosità dei viluppi vegetali e la tipologia dell’impiego del fondo blu filettato di biacca; la cronologia mi pare possa assestarsi sui primi decenni del ’400, probabilmente nel terzo.
Il corpo dell’iniziale è strutturato in modo libero e, per impiegare un termine qui un po’ fuori contesto, gotico, evitando l’altrettanto frequente schema che prevede il più bilanciato andamento con due elementi posti in orizzontale agli estremi superiore ed inferiore dell’asta. Questa scelta ritorna non di rado nel lettering della produzione felsinea dell’ultimo quarto del XIV secolo e della prima metà del XV (meno di frequente, anche prima e dopo): la lettera, se figurata, prevedeva poi l’inserzione di un ritratto in piedi o in piano americano – specie nel caso di testi classici: a puro titolo di esempio, nel ms. S. XXVI.5 della Biblioteca Malatestiana di Cesena di Stefano degli Azzi (Lollini 1998, p. 145, 151 n. 17 e figg. 102-103) – o di una scena ad andamento comunque verticaleggiante – come nel corale 615 del Museo Medievale di Bologna (Medica 1992, p. 24 e fig. 26) – che accompagnava sottolineandolo lo sviluppo dell’incipitaria; il presente codice, lo dimostra pure l’impiego del materiale cartaceo, non prevedeva invece un impegno finanziario tale da andare oltre la semplice iniziale decorata.
Il volume, come segnalato dal timbro che compare alla c. 1r, proviene dal fondo Venturi, e fu acquistato dalla Biblioteca Panizzi dagli eredi dell’erudito nel 1921 (unico codice miniato di questa raccolta privata).

Mss. Regg. C 147/25

Diploma di nomina a cavaliere aurato concessa dal Duca di Ferrara Alfonso III a Gerardo Mazzoli, 8 maggio 1533


A (Alphonsus) – c. 1r

L’iniziale, di qualità non trascinante ma di andamento comunque sorvegliato, dà conto bene della produzione corrente nella miniatura del XVI secolo, quando, tranne casi rari e particolarmente sontuosi che ormai si distaccano dalla decorazione libraria per arrivare ad essere vera e propria “pittura in piccolo” su pergamena, la miniatura è impiegata solo in manufatti ripetitivi e standardizzati, quali le matricole, i diplomi universitari, o – per esempio in questo caso – gli atti di concessione di dignità nobiliari, che – assieme ad altre tipologie di manufatti scrittori, anche religiosi, come le professioni monastiche – giungeranno poi fino al XVII e addirittura al XVIII secolo (Baldissin Molli 1999).
Il repertorio qui impiegato è ancora quello dei motivi vegetali, anche se nella struttura regolare si riecheggia forse, senza però utilizzarla direttamente, la struttura decorativa della candelabra, che era divenuta comune pressoché ovunque nell’ultimo quarto del XV secolo, per continuare poi sino al termine cronologico della miniatura come arte ancora vitale. La presenza – pur banalizzata – di elementi floreali vicini al vero, in origine forse reali notazioni naturalistiche presenti nel prototipo cui ci si ispirava, potrebbe costituire un riflesso, pur ormai lontano e con ogni probabilità non cosciente, dell’attività ferrarese di Matteo da Milano a cavallo tra primo e secondo decennio del ’500, per la corte estense (Miniatura a Ferrara 1998, pp. 295-312, J.J.G. Alexander e F. Lollini; Lollini 2001).

Mss. Regg. C 398

Michele Fabrizio Ferrarini, Antiquarium, [1477-1486 ca.]

Questo straordinario manoscritto, ormai abbastanza noto, contiene una delle più ricche e preziose sillogi antiquariali del XV secolo, dove vengono trascritti quei “fragmenti dilla sancta antiquitate” (Chiarlo 1984) che formavano tema obbligato di studio per chiunque volesse fregiarsi del titolo di umanista, l’esempio più celebre delle quali sono senz’altro le raccolte del Marcanova; non si tratta, dunque, di un vero e proprio codice miniato per come lo si intende in questa sede, ma di un volume in cui il repertorio decorativo (che include disegni di lapidi, monumenti, sarcofagi e di altre tipologie di reperti antiquari) è del tutto funzionale alla stesura del testo (Franzoni-Sarchi 1999).
In questo senso, l’unica eccezione – che motiva anche l’inclusione del pezzo in questo repertorio – è costituita dal bel frontespizio di tipo architettonico, dove un’illusiva profondità è ottenuta grazie alla realizzazione di un frontale di stile classico: oltre ad alcuni elementi tipici di questo contesto (il basamento dalla parte centrale ritratta, la decorazione a bassorilievo, i due capitelli compositi, e altro), troviamo però invenzioni più libere, come la struttura delle colonne e i mascheroni delle loro basi, in un pastiche, certo non strettamente corretto dal punto di vista della classicità del repertorio ma di grande effetto, certo eseguito da un valido artista; la stesura è affidata, come nell’iniziale C (Cum), al semplice disegno, poco rialzato dal chiaroscuro; l’intera struttura viene però smaterializzata dall’impiego abbondante dell’oro in foglia nel fondo, qui evidente segno di aulicità “di rappresentanza” del volume, ma poco congruente alla geometricità della pagina (e difatti mai utilizzata, a mia conoscenza, in altri esempi di frontespizio architettonico raffrontabili a quello reggiano, né in Veneto, né in Lombardia, né in Emilia).
Il mio precedente esame di quest’opera, volutamente generico (Lollini 1997, pp. 95-96), si era basato su quello che a torto ritenevo aprioristicamente un dato di fatto, e cioè un’esecuzione reggiana del codice: ciò che mi aveva portato, senza forse meditarci troppo, a inserire questo esempio nell’ambito del maturo rinascimento emiliano, quando, tra questa zona e la Romagna, le nuove istanze prospettiche e antiquariali di forte compattezza visiva, già ben diffuse in pittura, si iniziavano a diffondere anche nello specifico della decorazione miniata, pur se solo di rado convogliate nel frontespizio architettonico anticheggiante di origine veneta. Questo discorso di orientamento generale può tranquillamente essere ritenuto ancora valido, mi pare, ma necessita di alcune precisazioni. Come aveva già ben visto il Salmi, il decoratore qui attivo – che è assolutamente impossibile identificare nello stesso Ferrarini, data la professionalità specifica dimostrata, anche dal punto di vista tecnico della stesura della foglia d’oro – si apparenta alle invenzioni venete, e in specie padovane, che si collocano nel contesto antiquariale della città di Mantegna e Marcanova; più specificamente, si orienta su quanto era stato elaborato tra la fine del settimo e l’ottavo decennio dal “Maestro dei Putti” (Armstrong 1981; per aggiornamenti recenti Miniatura a Padova 1999, pp. 301-303, Bevilacqua e D’Urso), richiamato sia nella costruzione generale della pagina sia nella vivacità delle figurine che popolano i finti bassorilievi; le capziose invenzioni estranee al repertorio filologicamente classico (le volute a ricciolo dei basamenti e i mascheroni a essi adesi) paiono invece orientare su aree territoriali meno attente alla replicazione corretta dell’antichità, secondo una lettura “bizzarra”. Una possibilità, esplicitata da Salmi, era quella della Lombardia degli ultimi quindici anni del XV secolo, ai tempi insomma del Birago – peraltro fortemente influenzato, a seguito di un suo soggiorno veneto tra fine anni ’70 e primi ’80 (Miniatura a Padova 1999, scheda 137, pp. 335-336, Gnaccolini), proprio dalla decorazione libraria tra Padova e Venezia, e in specie, appunto, dal “Maestro dei Putti” già citato; questa ipotesi, che potrebbe anche essere corroborata, come si vedrà tra breve, dal percorso biografico del Ferrarini, non è però l’unica, dal momento che una facies in qualche modo parallela a questa, più inventiva e libera, della restitutio antiquitatis, a livelli assai alti, si può facilmente constatare anche in quell’area emiliana, più prossima a Reggio, che aveva come fulcro Bologna, dove già attorno al ’65 Marcanova realizzava la seconda versione della sua Collectio, affidandola a Feliciano, allo Zoppo, come vogliono molti studiosi – ma la proposta mi lascia perplesso – e ad altri disegnatori locali (da ultimi Miniatura a Padova 1999, pp. 255-256, A. De Niccolò Salmazo, con ampia bibliografia, e Il potere, le arti 2001, pp. 232-235, F. Lollini).
Il frontespizio del codice ferrariniano, allora, si palesa come un esempio di caratura formale e tecnica alta, quale poteva aversi non nelle zone venete in senso stretto, ma in quelle veneteggianti per affinità culturale di tipo antiquariale, tramite circolazione di artisti interessati a questo specifico tipo di illustrazione, ma anche grazie alla conoscenza reciproca e personale di chi si occupava dell’accumulazione di materiali e repertori antichi; saremo più precisi tra breve.
Anche se non sono – in senso stretto – esempi da far rientrare in questo repertorio di miniature, bisogna allora osservare i disegni che accompagnano tutto il testo, che, come già avevo detto (Lollini 1997, p. 95) e altri hanno ribadito, non solo per motivi stilistico-qualitativi ma sulla base di dati certi (Franzoni-Sarchi 1999, pp. 21, 24), spettano al Ferrarini solo in piccola parte, corrispondente a quei casi in cui allo specifico lettering la necessità di una corretta replicazione visiva aggiungeva solo schemi grafici di grande semplicità; nei casi più complessi dal punto di vista decorativo, e distanti dalla semplice trascrizione di un testo classico, che prevedevano maggiore abilità, il Ferrarini, autore, copista e – per spendere un termine moderno – grafico dell’opera, si rivolse ad altri personaggi, alcuni di alto calibro, e in grado comunque di raggiungere al contempo un livello maggiore di esattezza figurativa e una grande autorevolezza stilistica; alcuni sono acquerellati, o sottolineati a tratteggio da un valido chiaroscuro. Non mancano momenti significativi, non solo dal punto di vista antiquariale o (più strettamente) documentario, ma da quello artistico relativo all’esecuzione. Data la tipologia degli interventi, che offre pochi parametri di confronto, non mi arrischio a determinare con sicurezza se la mano del decoratore responsabile del frontespizio si ritrovi mai nel resto del volume: ma l’ipotesi è, per lo meno, fortemente probabile. Parte di questi disegni sono stati di recente posti in ambito bolognese, sulla base di un confronto col noto codice di Monaco riferito al giovane Amico Aspertini, dove ritroviamo, oltre che una comune suggestione d’ambiente, pure specifiche derivazioni, che dimostrano come il pittore bolognese conoscesse l’opera ferrariniana e il suo corredo illustrativo: da qui, la proposta (pur in forma ipotetica) di riferire parte dei disegni al padre di Amico, Giovanni Antonio, che è tra l’altro documentato a Reggio Emilia (Franzoni-Sarchi 1999, pp. 22-28).
La cronologia del Mss. Regg. C 398, come già ho avuto modo di dire su base esclusivamente stilistica (Lollini 1997, p. 95), si può collocare genericamente a cavallo tra la fine dell’ottavo decennio del XV secolo e il 1486-87: a parte lo stile, però, ci aiuta a essere più precisi l’esame della genesi dell’opera antiquariale ferrariniana, che – nonostante la sua grande importanza – vanta ancora troppo poche certezze, e si affida a un percorso bibliografico non sempre preciso (da questa situazione, lamentata anche di recente, dipendono alcune delle inesattezze da me purtroppo scritte in altra sede e che qui si cercherà di emendare).
Le tre versioni autografe dell’opera, oltre alla copia reggiana, sono i mss. 57 della Biblioteca Universitaria di Utrecht e Latin 6128 della Bibliothèque Nationale di Parigi (in questa sede, preciso, non si prenderanno in considerazione i programmi illustrativi di questi due volumi); si aggiungono poi altri codici, dovuti a mani diverse, che hanno copiato, parzialmente o in toto, l’opera del nostro erudito. La versione in Olanda pare essere la più antica, sulla base del riscontro che si può fare sul contenuto dell’opera (numero delle epigrafi trascritte, rapporti con le altri sillogi antiquariali): il codice è mutilo del testo della lettera di dedica, che ci è però noto da un altro manoscritto da questo esemplato, il Vaticano Latino 5243; qui, troviamo la data 1477 e la dedica a Ludovico Rodano non più presenti nel volume di Utrecht. La versione parigina è posteriore, priva di dedicatario e di indicazione cronologica, ma con ogni probabilità di poco successiva alla precedente (da notare che Felice Feliciano, altro gran nome dell’erudizione antiquaria, è qui definito correttamente “Regiensis”, nonostante preferisse definirsi “Veronensis”). La versione reggiana C 398 dovrebbe essere la più tarda, e si può collocare attorno alla metà degli anni ’80, verso la data 1486 (CIL, III, pp. XX, XXV; CIL, VI/1, pp. XLIII-XLIV; CIL, XI/1, p. 171; De Maria 1989, pp. 186, 188, 193; Franzoni 1999b), che deve però essere considerata, appunto, né come ante, né come post quem, dal momento che la genesi di un’opera come l’Antiquarium, nelle sue varie versioni, si pone come vero work in progress, sia dal punto di vista dell’arricchimento dei dati raccolti, sia come realizzazione grafica – situazione d’altra parte del tutto analoga a quello che si riscontra in altri lavori del medesimo ambito (si pensi alla complicata genesi della Collectio di Marcanova, con le due date 1457-60 e 1465, ma una storia che senz’altro inizia ben prima, e che termina forse dopo: Lollini 1998b, pp. 485-486 n. 10; Il potere, le arti 2001, pp. 232-235, F. Lollini). Come pezzo prezioso, anche in chiave di orgoglio municipale, in ambito reggiano – insomma – un vero monumentum, il codice ha avuto una storia conservativa assai particolare; doveva essere conservato in un’arca affissa al muro nella biblioteca del convento dei Carmelitani di Reggio di cui Ferrarini era stato priore, ma venne asportato e recato a Roma nel XVII secolo; passò poi varie volte di mano (e fu anche in possesso di Carlo Cesare Malvasia, il biografo dei pittori bolognesi), finché fu detenuto dai Carmelitani di Parma, che lo restituirono ai loro confratelli reggiani nel 1711; in seguito alle soppressioni, fu poi alienato e portato alla biblioteca pubblica (Tassano Oliveri 1979, pp. 520-524; Franzoni 1999b).
Se il codice viene davvero a collocarsi attorno al 1486, possiamo riaprire brevemente il discorso della sua decorazione, alla luce della biografia ferrariniana: l’esecuzione potrebbe essere stata realizzata a Reggio Emilia, dove Ferrarini fu priore sicuramente tra 1481 e 1482, e forse fino al 1485, poi di nuovo dall’87-88; o a Brescia, dove risiedette occupando analoga posizione tra l’85 e l’87 (Tassano Oliveri 1979, pp. 513-519; Zaccaria 1996); per eccessiva distanza cronologica dalla probabile data del codice si può con qualche tranquillità escludere Firenze (soggiorno di studio presso i confratelli di San Paolo, prima metà degli anni ’70) e Mantova (1475-76). Al di là delle consonanze “bizzarre” nelle varianti al repertorio classico, che in effetti ritroviamo in Lombardia, col già citato Birago, attivo per lungo tempo proprio a Brescia, mi pare che il frontespizio della copia reggiana trovi miglior collocazione in Emilia, in un contesto antiquariale derivato come già detto da quello in cui avevano operato in area vicina nomi come Marcanova e Feliciano: quasi trait-d’union, allora, tra questa precoce temperie culturale, e la sua ripresa che, con spirito ormai diverso, affronterà un personaggio come Aspertini, al di là dell’attribuzione, che mi pare peraltro ormai stabilizzata in positivo, del codice di Monaco (ed è probabile che i mascheroni grotteschi usati in modo ormai del tutto differente, dal punto di vista sia percettivo che culturale, dai Cavalletto non trovino specifico motivo d’essere in queste variabili eccentriche del dettato classico). La componente veneta si spiegherebbe allora non tanto con la circolazione generica di novità formali tra Padova e Reggio Emilia (o Bologna, dove Ferrarini fu priore tra 1477, quando datò la dedica della prima versione dell’Antiquarium, e 1479, comunque possibile, se non probabile, polo d’attrazione anche nel periodo in cui l’erudito risiedeva stabilmente nella sua città natale; per quanto può valere a questo proposito, la splendida legatura è stata riferita a un orafo reggiano: cfr. Gorreri 1997, pp. 153, 156-157); quanto piuttosto nel cosciente ricorso a prototipi specifici, per così dire, “targati”, e cioè già all’epoca dirette allusioni all’ambito territoriale più attento alla riscoperta antiquariale e filologica dell’antico: non derivazione stilistica, quanto citazione; Ferrarini, e conseguentemente gli autori da lui chiamati a collaborare al codice, conosceva poi assai bene i prodotti di quell’editoria veneta in cui troviamo la gran parte degli esempi del “Maestro dei Putti”: ce lo dicono non solo la logica, ma anche testimonianze dirette (come la lettera a Marin Sanudo in cui si cita Aldo Manuzio: cfr. Billanovich 1979).
Che l’autore del frontespizio possa trovare allora un’identificazione precisa, in ambito bolognese o comunque emiliano, è possibilità a tutt’oggi precoce, forse, ma non incoerente.

Mss. Regg. C 399

Marco Valerio Probo, Litterarum ac notarum antiquarum, [1475-1485 ca.]


H (His) – c. 2r

E (Est) – c. 4r

Questo importante volume costituisce un esempio dell’attività culturale del Ferrarini, più o meno – pare – alle stesse date del suo opus magnum, l’Antiquarium Mss. Regg. C 398 (Tassano Oliveri 1979, pp. 513-514). Dal punto di vista della decorazione, il codice ha invece un interesse assai relativo: le due iniziali decorate presenti nel volume, infatti, attingono a un repertorio del tutto usuale nella produzione miniatoria del XV secolo: il corpo della lettera, reso in foglia d’oro, è inserito in un modulo quadrangolare con fondo a due colori, mosso da una filigrana dorata e motivi vegetali. La loro pertinenza all’ambito locale reggiano, e la loro cronologia, sono messe in discussione solo grazie alla storia del percorso dell’elaborazione del suo testo, che fu forse completato a Brescia (dove ricevette un’edizione tipografica già nel 1486 da Bonino de Boninis); Brescia o Reggio Emilia, allora, per il completamento decorativo di questo codice, certo autografo dell’erudito reggiano, e compiuto senza dubbio anteriormente alla prima stampa.

Mss. Regg. C 407

Lezionario, [1460-1465 ca.]

Questo manoscritto costituisce uno dei pochi esempi sicuri di codice liturgico rinascimentale di ambito reggiano. La sua collocazione geografica e cronologica ci è assicurata da alcuni dati: a c. 3v, nel calendario, viene evidenziato san Prospero, mentre alle cc. 4v, ancora nel calendario, e 142r si ricorda la Trasfigurazione, ufficializzata liturgicamente da papa Callisto III nel 1457; una terza sua citazione, a c. 189r, viene seguita dal testo relativo alla sua celebrazione, che viene però aggiunto alla fine della sezione, prima del Commune Sanctorum; è possibile che questo volume sia stato dunque eseguito poco dopo l’istituzione della festività citata, con qualche problema di coordinamento nell’assemblaggio dei testi, oppure che sia stato trascritto da un antigrafo comprendente già questa (relativa) anomalia. In ogni caso, la datazione post ’57, e verosimilmente nei primi anni ’60, appare certa.
Le iniziali decorate del codice si possono facilmente collocare nel contesto emiliano del secondo ’400 influenzato sì dalle elaborazioni ferraresi delle grandi imprese per gli Este, a partire dagli anni a cavallo tra ’40 e ’50, ma nelle zone occidentali, tra Parma e le zone modenesi, anche depositario di una tradizione locale che, seppur non di livello eccelso, è interessante per la compresenza di elementi tardogotici riferibili sia a una specificità autoctona sia a derivazioni lombardeggianti (non conosco direttamente il Breviario ms. Ottoboniano Latino 544 eseguito a Reggio Emilia nel 1465, giudicato di gusto lombardo, con qualche imprestito lessicale ferrarese, dalla Zanichelli: cfr. O’Brien 1992, p. 149; Zanichelli 2000, p. 34-35); il maggiore rovello disegnativo negli elementi vegetali, rispetto ai grandi prototipi ferraresi, si ritrova pure in altri pezzi sicuramente reggiani, come il Mss. Vari A 59/1, eseguito in città nel 1463, con ciò confermando la cronologia prima proposta (questo meticciamento, assieme stilistico e repertoriale, è il Leitmotiv di Zanichelli 2000, con rimando a interventi precedenti sullo stesso tema). Il tono cromatico assai basso, quasi scolorito, più che da opzioni formali specifiche, viene motivato dalla conservazione non ottimale. L’unica sezione figurata, l’incipitaria di c. 7r con San Paolo, si mostra compartecipe di tratti formali analoghi a quelli riscontrabili in alcuni corali reggiani (17.A.135 e 17.A.136), e in qualche momento meno qualitativamente elevato di alcuni libri liturgici parmensi, quali i mss. R e Q alla Chiesa della SS. Annunziata (circa 1458-65), facenti parte di una serie di corali (Zanichelli 1994a, pp. 12-14, 98-100; Zanichelli 2000, pp. 32-33) trascritta – in toto o in parte – da quel Giovanni Coppo che sappiamo attivo pure nella città per cui fu eseguito il nostro volume, a confermare interscambi tra le due aree, probabilmente (almeno in origine) tramite la circolazione interna all’ordine francescano.

Mss. Regg. F 170

Suppliche, matricole e statuti dei beccai di Reggio Emilia, 1533-1561


Stemma estense – c. 1r

L’unica decorazione a pennello contenuta nel volume è lo stemma estense a piena pagina di c. 1r, eseguito certamente in ambito locale in occasione della stesura della parte originale del codice, nel 1533. Data la repertorialità della raffigurazione, nulla si può dire dal punto di vista stilistico di questo intervento, se non constatarne un’evidente debolezza, che può essere estesa anche all’aspetto della realizzazione tecnica.

Mss. Regg. F 393

Officia dei Santi reggiani, [1465-1475 ca.]


B (Beatorum) – c. 22r

La decorazione di questo manoscritto, di qualità non trascendentale, si inserisce bene nell’ambito delle derivazioni del repertorio ferrarese di tipo rinascimentale; a differenza di quanto si nota in altri pezzi conservati presso la Biblioteca Panizzi, specie di ambito liturgico (come il Mss. Regg. C 407), questo lessico non è miscelato ad altri influssi.
Gli elementi vegetali che compongono le lettere, molto spessi e carnosi, presentano una forte insistenza disegnativa: si vedano soprattutto quelli a c. 32r. Per quanto attiene invece alle sezioni figurate, presenti in numero assai limitato solo in relazione ai testi dei più importanti santi cittadini, il richiamo agli esempi estensi si può precisare a favore della corrente più espressiva che faceva capo a Giorgio d’Alemagna (Toniolo 1994, pp. 231-240; Toniolo 1997, pp. 412-421; Miniatura a Ferrara 1998, pp. 88-91, 92-99, 137-144, Medica, Lollini, Mariani Canova, Toniolo) e ai miniatori che lo tenevano come prototipo (quello del ms. 302 della Biblioteca Classense di Ravenna, per esempio: cfr. Miniatura a Ferrara 1998, pp. 99-101, Toniolo); in questo senso il presente volume trova un evidente parallelo nella Bibbia Arlotti, Mss. Vari B 119 di questa stessa raccolta, dove le figure delle iniziali e dei tondi, fatica del miniatore forse meno valido tra i due attivi nel codice, è tanto vicina a questa da lasciar anche lecitamente ipotizzare, seppur in via dubitativa, che si tratti del medesimo decoratore.


Mss. Turri C 17

Publio Terenzio Afro, Comoediae, [1420-1430 ca.]


A (Amicus) – c. 97v

Questo raffinato codice include, oltre al testo delle opere teatrali di Terenzio, anche un importante corredo filologico-documentario, ciò che indica una committenza particolarmente attenta ed esperta, come viene dimostrato anche dal fatto che il volume fu poi postillato e commentato; il livello alto del manufatto è anche confermato dall’elegante decorazione, che venne affidata non solo a un miniatore di pennello, autore delle iniziali decorate e di quelle figurate, ma anche a un calligrafo, dal momento che le belle lettere filigranate a inchiostro presenti in gran numero, soprattutto nei brani accessori, non possono assolutamente ricadere nel lavoro del copista (e difficilmente in quello del miniatore de pennello); anche la grafia, peraltro, nell’alternanza di soluzioni di lettering e di impaginazione, appare impegnata su soluzioni non di basso profilo.
Le miniature indicano subito il contesto tardogotico bolognese dei primi anni del secolo XV, cronologia supportata anche dalla scrittura, che, pur ancora non pienamente “all’antica”, nella struttura grafica che avrà di qui a qualche lustro, si dilata già però in strutture umanistiche ben distanti dalla gotica testuale. Tutti della stessa mano, cui spettano verosimilmente sia le parti figurate sia le sezioni solo decorate, gli interventi a pennello possono essere forse ricondotti agli influssi del ben noto ’Maestro delle Iniziali di Bruxelles’ (su cui vedi da ultimo Zanichelli 2001, pp. 36-40, e Cum picturis ystoriatum 2001, pp. 177-183, Zanichelli), il principale protagonista di quella temperie artistica che domina il contesto felsineo dalla fine del ’300 fino al quarto decennio del XV secolo. L’artista qui attivo si mostra comunque di elevata qualità, dalla stesura fine e morbida che tiene forse presente certe cose del più noto maestro collocabili negli anni ’10 (come un codicetto francescano di collezione privata reso noto da Bollati 1997), dopo il suo rientro dall’oltralpe, e in generale la temperatura squisita e delicata presente in città in quegli stessi anni (verso il ’13 è per esempio il bel ms. 428 della Biblioteka Jagiellonska di Cracovia, per certi versi non distante dal nostro volume: cfr. Medica 1992, p. 17 e fig. 5); come derivazione non eccessivamente banalizzata, dunque, il manoscritto della Biblioteca Panizzi potrebbe assestarsi sulle date tra 1420 e ’30.


Mss. Turri C 72

Tito Maccio Plauto, Comoediae, [1451-1475 ca.]


C (Curculio) – c. 63r

La decorazione del presente codice, di livello qualitativo medio, presenta grosse difficoltà di collocazione cronologica e geografica, non risolvibili grazie a dati oggettivi dal momento che il volume è privo di qualsiasi indicazione (antichi possessori, colophon, lettere di dedica o altro). Se la bella grafia è ormai pienamente umanistica, e può quindi suggerire una datazione successiva alla metà del XV secolo, il repertorio utilizzato dal miniatore risulta lontano da quello impiegato di solito nei codici umanistici di quel periodo, che si rivolge ai bianchi girari, o sceglie la meno ’antiquaria’ tipologia della voluta vegetale; qui, invece, certe soluzioni nella forma delle iniziali, e l’impiego di motivi fogliacei aperti, sembra ispirata alla decorazione libraria del periodo a cavallo tra XII e XIII secolo.
Mi pare allora che il confronto più stringente si attui con alcuni pezzi riferiti in genere al ritardatario ambito riminese del secondo e terzo quarto del ’400, quali il ms. 30 della Biblioteca Gambalunghiana (Mariani Canova-Meldini-Nicolini 1988, pp. 188-190, Nicolini), con scelte formali e compositive quasi sovrapponibili, a indicare forse un’origine romagnola.


Mss. Turri D 2

Onorio d’Autun, Expositio in Cantica Canticorum, [1150-1200 ca.]

Il codice riporta uno degli opuscola “non spernenda” riferiti al letterato, teologo e poligrafo Honorius Augustodunensis, cioè, secondo la vulgata corrente fino a epoca recente, Onorio di Autun, in Francia, sede di una fervida attività culturale legata alla presenza della nota Cattedrale; più di recente, una serie di indizi testuali e di storia della conservazione delle copie delle sue opere sembra invece collocarlo in area germanica, presso Regensburg.
Il piccolo programma decorativo viene svolto in forme matericamente assai semplici, con la definizione delle forme delle tre iniziali previste a inchiostro rosso, lo stesso – mi pare – delle rubriche del testo, e bruno, pure parallelo alla scrittura, solo ravvivate da fondi verdi e gialli appena velati e non coprenti, che non sono stati stesi in una delle tre incipitarie, evidentemente non completata, come è già stato notato (cfr. Marcuccio 2008, p. 31). La struttura è quella, del tutto tipica della decorazione libraria definibile globalmente, con certa approssimazione, ‘romanica’: con un andamento a fusto dell’elemento grafico della lettera, e un riempimento degli spazi ampi con motivi pseudovegetali a tralci, del tipo cosiddetto dei ‘bianchi girari’; alcuni cinghiette, e un grazioso uccelletto un po’ naïf, arricchiscono l’insieme.
Tutto pare compatibile con la cronologia e la collocazione geografica suggerita dalla componente scrittoria, e dunque pertinente all’area francese della seconda metà del XII secolo, come esempio dell’abbondante diffusione di questa e delle altre opere di Onorio; una certa repertorialità molto tradizionale parrebbe suggerire sia meglio, entro questo margine, non spingersi troppo in avanti: ma l’impressione precoce deriva forse anche dal livello suntuario non elevato del volumetto.
Le ultime carte presentano un’aggiunta testuale (un testo profetico riferito a Gioacchino da Fiore, ma del secondo XIII secolo, scritto in gotica) e una grafica, con un interessantissimo foglio recante tre rilievi architettonici riferiti alla chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che recano due date non ben comprensibili in relazione ai testi (tituli e didascalie) che accompagnano i disegni, la più recente delle quali indica una realizzazione attorno, o comunque successiva, al 1213; non esiste alcun legame col testo, e si può anzi ricordare che Onorio prese posizione contraria ai pellegrinaggi in Terrasanta, sostenendo la maggiore utilità di spendere somme di denaro in elemosine e altri sostegni ai poveri piuttosto che in spese di viaggio.


Mss. Turri D 81

Publio Terenzio Afro, Comoediae, [1451-1475 ca.]


Publio Terenzio Afro, Comoediae, [1451-1475 ca.]

Il codice, di fattura elegante pur se non di grande qualità nelle sue sezioni miniate, appare di difficile collocazione geografica e cronologica, in attesa dell’aiuto che potrebbe venire dallo stemma che figura a c.1r, nel bas-de-page, bianco e giallo con tre conchiglie, che finora non si è potuto identificare. Il miniatore attivo nel volume applica nei fregi una tipologia tardogotica, dove gli elementi fogliacei, particolarmente sfrangiati, si mischiano a fiorellini resi con una certa grazia naturalistica e didascalica; prevale un andamento cromatico basato sul rosa e l’azzurro, secondo una dualità tipicamente gotica, e latamente francese. La forma – peraltro spesso impacciata – delle iniziali, e soprattutto la grafia impiegata dal copista, appare però pienamente rinascimentale.
Un buon parametro di confronto può essere offerto da una situazione provinciale di ambito veneto quale quella di Monselice: il graduale 10014 della locale Biblioteca Comunale, datato in genere sul 1450 (ma forse un po’ successivo), offre confronti abbastanza stringenti nel repertorio impiegato nei fregi (Calligrafia di Dio 1999, pp. 178-179, Bozza); al contempo, però, la resa dei fiori sembra orientare più sulla Lombardia orfana di Michelino da Besozzo. Si potrebbe allora pensare, in via dubitativa, a una situazione sul 1460-1465, appena più anticipata di quella che avevo proposto in un primo momento, in un contesto territoriale che sarà certo da identificare in via generale in area padana, forse tra Lombardia e Veneto, ma senza escludere l’Emilia.


Mss. Turri E 18

Basilio Magno, De vera integritate virginitatis, nella versione latina di Ambrogio Traversari, [1460-1470 ca.]


A (Agnovi) – c. 82v

L’elegante codicetto presenta i caratteri tipici della decorazione umanistica a bianchi girari; le lettere decorate hanno il corpo definito in oro, mentre il campo in cui sono inserite, quadrangolare, è steso a pigmento blu, e appunto riempito da una fitta tessitura di foglie di vite bianche, le cui anse sono talvolta riempite di colore verde; nei brevi fregi, troviamo poi inserti naturalistici di discreto effetto, con farfalle raccolte e la figuretta di un putto.
La tipologia dei girari, le piccole sezioni figurate, ma soprattutto l’andamento cromatico non molto vivo, suggeriscono di porre l’esecuzione di questi interventi a pennello presso una bottega fiorentina di discreto livello qualitativo, senz’altro nella seconda metà del XV secolo, e più precisamente, forse, nel terzo quarto del ’400, attorno al ’60.


Mss. Turri F 73

Leonello Chiericati, Dialogus et orationes quas traduxit, 1463


C (Cum) – c. 45v

L’elegantissimo codicetto può vantare legami diretti con uno dei grandi personaggi delle corti padane del XV secolo, quel Niccolò di Lionello d’Este che ebbe, come vedremo, notevole peso nella vita politica e culturale ferrarese. Leonello Chiericati, umanista di alta levatura nel panorama veneto, è infatti l’autore – oltre che delle traduzioni delle due orazioni attiche di Isocrate e Nicocle – di una lettera prefatoria, rivolta a Francesco Didio; in essa leggiamo prima una consolatio, motivata da un lutto recente, al destinatario, poi una sorta di consultazione, in cui chi scrive chiede al lettore se fosse il caso o meno di dedicare a Niccolò d’Este le proprie versioni latine degli scritti greci, che troviamo più avanti nel manoscritto; l’impressione è quella di un lusus, tipicamente umanistico, in cui la finzione vale come espediente retorico per evitare un approccio più diretto. È in ogni caso pressoché certo che il volume sia stato effettiva copia di dedica; tra l’altro, Giuseppe Turri, l’erudito ottocentesco dalla cui raccolta il pezzo proviene, poteva vantare nella sua collezione un altro codice di presentazione legato all’ambito della corte ferrarese, il De re publica di Frulovisi, Mss. Turri F 92, destinato a Lionello d’Este.
E di Lionello, signore di Ferrara dal 1441 al 1450, Niccolò era il figlio. Alla morte del padre, il comando della famiglia e della città, essendo lui troppo giovane, venne preso dallo zio Borso. Negli anni che seguirono, fino alla fine del settimo decennio del secolo, Niccolò condusse una vita ritirata e attenta allo studio; della sua biblioteca rimangono una Rhetorica ad Herennium, ms. alfa P. 8.15 = Lat. 289 della Biblioteca Estense Universitaria di Modena e una copia del trattato di Michele Savonarola De vera republica, ms. alfa W. 6.6 = Lat. 114 della medesima sede, cui vanno però aggiunti alcuni pezzi testimoniati da inventari della corte (Aulo Gellio, Lattanzio, Giustino, una Vita di Sant’Antonio da Padova, Valerio Massimo, Seneca e Cicerone), e un codice liturgico privato ancora esistente ed identificabile con certezza, il libro d’ore ms. alfa G. 9.24 = Lat. 856, sempre a Modena. Dopo la morte di Borso e la salita al potere dell’altro zio Ercole, nel 1471, Niccolò tentò di riacquisire un ruolo politico rilevante, ma i suoi tentativi di arrivare al comando della città furono stroncati, e fu ucciso nel ’78 (Tissoni Benvenuti 1991, pp. 75-76; Toniolo 1990-1991; Miniatura a Ferrara 1998, pp. 176-178, Toniolo).
La datazione topica e cronica “Padova, 1463” riportata dall’epistola, va dunque riferita non solo al testo, ma nello specifico alla copia reggiana, pur se – stricto sensu – ne manca la certezza assoluta: vale comunque come importante punto di riferimento, dal momento che anche lo stile della grafia e delle miniature si orienta su un contesto analogo. Per quanto riguarda la scrittura, siamo davanti infatti a una bella prova del noto copista Bartolomeo Sanvito, uno dei protagonisti dell’umanesimo padovano (Barile 1997, p. 163; De La Mare 1999, p. 498). Le iniziali decorate presenti nel volume, parallelamente, sono splendidi esempi di quella tipologia di lettera che si va elaborando, e poi diffondendo, in Veneto a cavallo tra il 1457 circa i primissimi anni ’60 del ’400, con ogni probabilità nell’entourage mantegnesco – senza per questo volere entrare nella vexata quaestio, ancora in fieri, sulle responsabilità dirette del pittore nel campo della decorazione libraria – e che appunto prende spesso il nome di “mantiniana” (che qui si mantiene, preferendolo ad altre determinazioni lessicali quali faceted initial o altro): il corpo dell’iniziale, esemplata a tutta evidenza sull’epigrafia classica, diviene tridimensionale, come derivato in negativo dal calco di un’iscrizione antica; la leggibilità è assicurata dal contrasto cromatico, evidente pur se molto raffinato, col fondo. I capostipiti di questa tendenza innovatrice (che avrà poi successo strepitoso) sono considerati il ms. Latin 17542 della Bibliothèque Nationale di Parigi e il ms. 77 della Bibliothèque Municipale di Albi, inviati da Jacopo Marcello a Renato d’Angiò, eseguiti in Veneto, tra la zona padovana e Venezia, e variamente attribuiti – come l’altro dono del nobile veneziano al sovrano: il ms. 940 della Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi – a Mantegna, Zoppo, Lauro Padovano, Giovanni Bellini e relative botteghe e/o collaboratori – ma a parere di chi scrive la responsabilità maggiore nel progetto nella sua globalità l’ebbe probabilmente Jacopo Bellini (per un bel riassunto della questione, e la ricca bibliografia, cfr. da ultimo Miniatura a Padova 1999, pp. 241-243, De Niccolò Salmazo). Il volume della Biblioteca Panizzi pare una filiazione diretta e vicina cronologicamente a esempi come questo, nella sua semplicità elegante, tipico tratto dell’umanesimo padovano, che si riscontra anche, per quanto attiene ai compiti – pur essi “decorativi” – del copista, nella grafia aulicissima e, nelle intestazioni, variata nel colore degli inchiostri: come confronto, anche dal punto di vista della tipologia testuale di codice umanistico di traduzione in copia di dedica, valga per esempio il ms. 531 della Biblioteca Universitaria di Pisa, scritto dallo stesso Sanvito (Miniatura a Padova 1999, pp. 252-253, De La Mare), o ancor meglio il ms. Vaticano Palatino Latino 1508, di mano del medesimo copista, databile verso lo stesso ’63, e decorato, almeno nelle iniziali, in modo sovrapponibile al codice reggiano (De La Mare 1999, p. 498, con bibliografia; per riproduzioni fotografiche cfr. Bibliotheca Palatina 1986, II, tavv. 45-47). Il rimando al miniatore Giovanni Vendramin – che sappiamo attivo in Veneto e a Ferrara, in una carriera intensa, documentata dal 1466 al 1509 (cfr. Miniatura a Padova 1999, pp. 267-289, De Niccolò Salmazo, Bellinati, Mariani Canova, Benetazzo, con bibliografia) – da me operato in altra sede, senza certo arrivare a un riferimento diretto, vale ancora come indicazione generale del contesto in cui questo artista si formò (i debutti costituiscono comunque la sua fase più incerta).
La mano padovana che eseguì le iniziali di questo codice lavorò comunque ai tempi della data apposta in calce all’epistola dedicatoria, o – al limite – pochissimo tempo dopo.


Mss. Turri F 92

Tito Livio Frulovisi, De re publica libri tres, [1434-1436 ca.]


T (Te) con testa maschile che riceve da una mano una corona di lauro e fregio lungo il margine interno – c. 41v

Il codice è l’unico testimone noto del trattato politico di Tito Livio Frulovisi De re publica, composto probabilmente nella prima metà degli anni ’30 del XV secolo, e in ogni caso prima del 1436, quando l’umanista si trasferì in Inghilterra, continuando là la sua attività di prolifico autore “all’antica” di testi di tipologia assai differente: opere teoriche, versi, commedie. Frulovisi si era allontanato dalla sua città, Ferrara, ed aveva viaggiato per molte corti, inclusa quella aragonese di Napoli, per trovare una collocazione abbastanza stabile a Venezia, dove – con ogni probabilità, se ipotizziamo che il volume della Biblioteca Panizzi non sia stato realizzato molto tempo dopo la stesura definitiva dello scritto che contiene – venne copiato e decorato il presente manoscritto.
L’opera viene dedicata a Lionello d’Este: e data la raffinatezza del confezionamento del codice è pressoché certo si tratti proprio dell’esemplare di presentazione, forse offerto come tentativo di captatio benevolentiae, da parte del suo autore, in previsione di un rientro, in effetti poi mai avvenuto, nella sua città natale. A rafforzare una cronologia precoce può concorrere una serie di dati: innanzitutto, Lionello non viene mai definito dux di Ferrara, o identificato con un altro titolo tra quelli che assommerà in seguito, il che lascia presumere che non fosse ancora signore (ciò che avverrà nel 1441); poi, troviamo al lavoro nel codice due personalità ben note, entrambe veneziane, che sappiamo attive nella propria città natale appunto nei primi anni ’30: Michele Salvatico, copista, e il miniatore Cristoforo Cortese. L’attività di Salvatico è stata ricostruita dalla De La Mare, che ha evidenziato la sua abilità nella littera antiqua, come si può vedere anche nel volume reggiano, a lui attribuito pur in mancanza di colophon, scritto in una grafia pulita ed elegante, di grande effetto anche nelle intitolazioni, che sono eseguite – indice di una particolare cura che ben si adatta a una copia di dedica – a inchiostri alternati rosso, blu e oro; anche le non poche sezioni testuali in greco, singoli lemmi o brevi frasi, sembrano della stessa mano (cfr. Negri Rosio 1977; Negri Rosio 1978; De La Mare-Griggio 1985, p. 353).
Cristoforo Cortese è uno dei più importanti miniatori veneti, attivo a Venezia tra la fine del ’300 e gli anni ’40 del ’400, nel bel mezzo della temperie tardogotica; il suo catalogo, ancora in espansione grazie al rinvenimento di inediti, è assai ricco di opere, tra cui anche altri codici copiati dal Salvatico (gli attuali mss. A 21 della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e 1379 della Österreichische Nationalbibliothek, in origine facenti parte di un unico volume), a lasciar intravvedere una collaborazione in qualche modo continuativa. Pur appartenente a una generazione precedente a quella pienamente rinascimentale, Cortese fu tra i primi sperimentatori della decorazione “a bianchi girari”, che gli umanisti ritenevano fosse in qualche modo la vera facies, elegante e al contempo non interferente con la lettura, della decorazione libraria antica (sugli esempi a bianchi girari di Cortese, cfr. Miniatura a Padova 1999, pp. 227-228, Franco; alcuni studiosi tendono però a scorporare queste opere dal catalogo dell’artista: cfr. per esempio Ferretti 1985, p. 94). Nel caso della Panizzi, i girari sono recinti per campiture assai vivide e variate cromaticamente, secondo un’imagerie, tutto sommato, ancora gotica, che riesce a far convivere questa precisa scelta formale con l’idea, assai originale, di includervi (in tre casi) una scena narrata in un modo che potremmo definire per “contrazione iconografica”, ma riconoscibile: un’incoronazione, di cui vediamo la testina e la mano che sta per imporre il serto laureo, ulteriore indizio – se ce ne fosse bisogno – della destinazione aulica di questa copia del testo del Frulovisi.


Mss. Turri F 120

Marsilio Ficino, Commentarium in convivium Platonis de amore, [1465-1475 ca.]


T (Tria) – c. 17v

Questo volume presenta un frontespizio miniato a bianchi girari, che include un’iniziale figurata, di qualità appena discreta (e in precario stato di conservazione), e una serie di lettere decorate di fattura artigianale; in alcuni punti sembra che le mani attive nella decorazione (bisogna infatti senz’altro distinguere tra quella che lavora a c. 1r e quella che ha la responsabilità delle altre) si siano avvalse di materiali scadenti, o che comunque vi sia stato qualche problema, più che nella conservazione successiva, nella stesura tecnica delle cromie, che appaiono come dilavate.
L’andamento delicato delle campiture colorate dei girari sembra indicare una collocazione fiorentina del codice, che pare confermata pure da quel poco che resta del ritratto – forse di Platone, o piuttosto dello stesso Ficino – inserito nell’incipitaria.
La cronologia dovrebbe stabilizzarsi in ogni caso, mi pare, nel terzo quarto del secolo XV.


Mss. Turri F 129

Agostino Dati, Orationes, [1445-1455 ca.]


A (Antequam) – c. 29r

C (Cognovi) – c. 3r

È assai probabile che il codicetto costituisca un dono del senese Ludovico Marescotti al cardinale Colonna, come lasciano ipotizzare la lettera di dedica e i residui della raffigurazione parlante dello stemma all’inizio del testo.
Prospero Colonna era, attorno alla metà del XV secolo, uno dei più importanti ed influenti esponenti della curia papale, nonché raffinato cultore della classicità e animatore di incontri letterari nella sua abitazione di piazza Santi Apostoli, in stretto rapporto col Bessarione (Lollini 1989, p. 23); la scelta da parte del Marescotti di presentargli una copia delle orazioni, “all’antica”, del noto umanista fiorentino Dati non è dunque sorprendente, mentre stupisce il bassissimo livello della decorazione, costituita unicamente da letterine di fattura artigianale, senza la benché minima opzione stilistica: la collocazione del codice a Siena (o a Bologna, sede di un altro ramo della famiglia Marescotti? O magari nella stessa Roma?) negli anni ’40 del ’400 può derivare infatti esclusivamente dall’analisi della biografia dei personaggi citati.


Mss. Turri G 66

Officia dei santi patroni e protettori di Reggio Emilia, [1680-1700 ca.], con inserzione di miniature provenienti da codici dei sec. XIV-XV


D (Domine) – c. 7v

Questo inusuale codice venne realizzato alla fine del ’600 in ambito locale reggiano, come mostrano immediatamente le tipologie testuali, tutte orientate sulla devozione dei santi patroni e di altri che potevano vantare una particolare venerazione in città; vennero preparati i fascicoli (cartacei), tracciata la rigatura, e trascritto il contenuto – in una grafia del tutto tipica del periodo, senza tentativi di imitare quella dei secoli più antichi, ma alternando al colore dell’inchiostro usato – secondo la prassi comune dei codici liturgici sia antichi che coevi – il rosso, nelle intitolazioni e nelle indicazioni liturgiche; tutto ciò fu predisposto lasciando nei punti cruciali, e cioè gli incipit dei testi principali, uno spazio bianco, esattamente come avveniva di norma nei secoli fino al XVI, quando il compito di terminare la pagina (contemporaneamente integrando la lettera e decorando il testo) era affidato a un miniatore o a un calligrafo.
Nel presente volume, invece, si fece ricorso, ante litteram, a una pratica di cutting, diffusa, a partire soprattutto dalla fine del XVIII secolo, per scopi del tutto diversi – e meno nobili: si ritagliarono cioè singole miniature (lettere decorate e figurate) da codici antichi, evidentemente disponibili in loco, e non più impiegati o comunque non degni, nel giudizio del tempo, di essere conservati integri, non per motivi legati alla nascente pratica collezionistica, o di commerciabilità, o ancora per adeguarsi alla lettura tutta moderna della miniatura come “piccola pittura” (come appunto sarà un secolo più tardi), ma più prosaicamente per impiegarle come elementi decorativi già confezionati, quando già da lungo tempo non sussisteva più la possibilità di recuperare chi fosse dotato di una forte professionalità in questo ambito; i pochi continuatori su manufatti librari della pratica miniatoria ancora esistenti erano infatti o pittori che trascrivevano in piccolo composizioni estranee alla miniatura in quanto decorazione specificamente libraria, o quegli artigiani (quasi sempre monaci) che eseguivano qualche decorazione, più o meno sommaria, nei fascicoli aggiunti ai codici liturgici per motivi di aggiornamento testuale, o su essi palinsesti. Nel nostro caso, invece, siamo di fronte a un codice del XVII secolo che ricicla singoli elementi ben più vetusti. Sarebbe interessante analizzare come fu organizzato il lavoro, anche per comprendere appieno quanto dovette essere difficile far coincidere iniziali già eseguite con un brano nuovo, intrecciando – per così dire – il punto di vista del rispetto della lettera del testo, comune a tutti gli interventi, e quello della logicità iconografica nel caso delle sole sezioni figurate; abbiamo casi interessanti, e anche divertenti, quali la generica figura femminile e il probabile ex profeta che vengono riutilizzati nel materiale testuale relativo ai santi Crisante e Daria, o la A di c. 55v, che viene disinvoltamente applicata alla lacuna lasciata libera per la F iniziale di “Fidelis”. In ogni caso, il procedimento operativo dovette essere questo: per ogni punto dove era previsto l’inserimento, si preparò la carta, forse raschiandola leggermente perchè potesse meglio ricevere la presa, poi si incollò il ritaglio, e infine si mascherò l’intervento mimetizzando l’aggiunta con inchiostro nero, lo stesso impiegato per trascrivere i testi, in qualche caso semplicemente contornando il tutto a mo’ di cornice, altre volte eseguendo un vero e proprio fregio; purtroppo l’acidità del materiale impiegato qui, come anche nelle sezioni testuali, ha provocato in questi punti assai delicati di giuntura problemi di conservazione.
Per quanto attiene all’aspetto stilistico, è possibile operare, con qualche difficoltà dovuta alla decontestualizzazione, alcune distinzioni. Da un unico codice bolognese del XIV secolo provengono le decorazioni figurate delle cc. 9v e 12r e, forse, la decorata a c. 5v; mi pare ancora valida l’indicazione che avevo dato in un primo momento: e cioè che si tratti di un esempio vicino al cosiddetto ’Maestro del B 18’, e cioè una delle prime mani che si alternano nei corali di San Domenico, la seconda (Mariani Canova 1978, pp. 3-7; ma da ultimo su questo artista Medica 2000, pp. 83-84, 90 nn. 6-7: lo studioso mi comunica di non escludere un riferimento diretto per i frammenti reggiani)  Da più codici seriori arrivarono le altre iniziali: quella figurata di c. 40r è condotta in uno stile che si può genericamente collocare poco dopo la metà del ’400, in un’area padana già toccata dagli insegnamenti prospettici ma ancora latamente tardogotica: perchè no, la stessa Reggio; mentre appare ancor più probabile che sia locale, da quel poco che si sa della miniatura in città (penso per esempio a fatti come il Mss. Regg. C 407), l’intervento di c. 62v, comunque più o meno coevo. Le lettere decorate seguono due differenti tipologie, che con qualche probabilità di essere nel giusto potremmo attribuire ad altrettanti manoscritti originari differenti: iniziali in rosa su fondo oro, con ricchi motivi vegetali di derivazione ferrarese; iniziali semplici in oro su fondo colorato con filettature in bianco di biacca, in due casi arricchite da bianchi girari di buona qualità; probabile anche qui un’esecuzione reggiana, ma senz’altro emiliana, negli anni ’60 del XV secolo.


Mss. Vari A 58

Messale, [1450-1460 ca.]


E (Ego) con Ognissanti – c. 161v


Fregio a motivi vegetali con cerchietti dorati, che affiancava una iniziale asportata – c. 81r

Il codice non presenta alcun dato codicologico o testuale che possa orientare verso una collocazione cronologica o geografica. L’esame formale della decorazione è purtroppo reso quasi impossibile dalle condizioni attuali del volume: dei residui interventi miniati (ma l’ampiezza delle mutilazioni, intere carte o parti di esse, lascia intravvedere la possibilità si trattasse di un manufatto assai ricco), uno – un’iniziale figurata – è in pessima situazione conservativa, con cadute di colore e ossidazione dei pigmenti, l’altro è costituito dal solo breve fregio di un’altra incipitaria, asportata.
Quel poco che si può ancora vedere basta a dare l’impressione di un livello stilistico medio, e a suggerire un’esecuzione in area emiliana a date che dovrebbero essere comprese nel periodo subito successivo alla metà del ’400; l’area locale è la più probabile a essere chiamata in causa.


Mss. Vari A 59/1

Miscellanea di medicina, 1463


P (Postquam) – c. 1r

Questo codice è uno dei pochi conservati presso la Biblioteca Panizzi che possa vantare un’esecuzione reggiana certa e documentata; le annotazioni ci assicurano infatti che il codice venne trascritto dal copista olandese Cornelius van Reymetzwael, al lavoro sulle diverse sezioni testuali del manoscritto nel periodo tra marzo e aprile del 1463, e fu realizzato per il medico reggiano Niccolò di Cristoforo Ardizzoni, che tiene a precisare in una nota, non tanto che volle far decorare il pezzo con iniziali miniate, ma che fece apporre il proprio stemma familiare sul frontespizio; il valore di sette fiorini d’oro, dichiarato esplicitamente (in seguito a una stima, o in sua previsione?) appare del tutto congruente a un volume trascritto da un copista professionista e decorato con una certa cura; la lettera del testo delle sottoscrizioni del copista e del committente, di per sè, non esclude che la decorazione si sia aggiunta in un secondo momento – ma mi pare che questa possibilità sia alquanto remota.
La facies del programma a pennello, costituito – a parte lo stemma – da sole iniziali decorate, mostra un palese apparentamento alle tipologie decorative rinascimentali ferraresi, con eleganti corpi a volute fogliacee su moduli quadrangolari in oro e blu filettato di bianco, con l’aggiunta di altri elementi vegetali, particolarmente corposi, a definire brevissimi fregi fuoriuscenti dalle incipitarie (d’altra parte, lo stesso Niccolò ci ricorda che siamo al tempo “Borsis extensis Regij ac Mutine ducis”), cui si sovrappongono – come di consueto in zona – elementi più legati al tardogotico locale. Che a Reggio avessero la propria attività una o più botteghe di miniatori, tra la fine del sesto e settimo decennio del XV secolo, ce lo confermano, oltre a questo volume, almeno un paio di altre presenze certamente locali: in questo senso, del tutto simili ai motivi decorativi qui presenti sono quelli che ritroviamo in alcuni volumi liturgici, ora anch’essi alla Panizzi (Corali 17.A.13817.A.14117.A.154), e datati tra 1458 e 1464, provenienti da un complesso religioso locale, e che possiamo con qualche tranquillità riferire, non alla stessa mano del Mss. Vari A 59/1, ma almeno a un suo stretto affine, forse compagno di lavoro in una medesima entità produttiva.


Mss. Vari A 59/2

Miscellanea di medicina, 1471-1479


U (Utrum) – c. 143v

Il volume venne realizzato con ogni probabilità a sé stante, come secondo elemento della coppia che formava, per motivi testuali (testi di arte medica) e di committenza, col Mss. Vari A 59/1; a quest’ultimo fu poi aggregato tramite rilegatura, e forse parziale riadattamento dei fascicoli, in un momento che non è possibile determinare con certezza: col restauro del 1959 i due pezzi furono ridivisi ristabilendo la situazione originale.
Anche questo codice, come il precedente, venne trascritto a Reggio Emilia per Niccolò di Cristoforo Ardizzoni dallo scriba olandese Cornelius van Reymetzwael, come dimostrano sia la sottoscrizione di quest’ultimo in explicit al testo di Jacopo della Torre, che reca anche la data 1479, sia l’indicizzazione degli argomenti di questa importante opera medica, cioè la Tabula quaestionum, elaborata dallo stesso Niccolò e da lui medesimo trascritta alle cc. 158r-159r; la prima sezione testuale che troviamo nel volume, invece, alla c. 1r-v, riporta il nome di un altro Ardizzoni, Ludovico, forse fratello di Niccolò (e quindi figlio anch’egli di Cristoforo), in ogni caso medico: contiene una serie di note e di schemi medici, scritti su un foglio a parte rispetto ai fascicoli del manoscritto, che costituiscono per così dire gli appunti che Ludovico prese a Ferrara alle lezioni di Francesco Benti, celebre medico senese in trasferta presso lo Studio estense.
La decorazione, come nel volume gemello, è basata sulla ripresa, a livelli esecutivi e stilistici decisamente alti, di prototipi decorativi di origine ferrarese (coi soliti elementi locali tardogotici di derivazione lombardeggiante), lievemente diversi da quelli che abbiamo trovato nell’A 59/1, ciò che indica o una differente mano, o magari un aggiornamento degli schemi grafici della bottega a distanza di più di un decennio. Questo lascia intravvedere una continuità nella presenza di officine miniatorie a Reggio nel secondo ’400, in concomitanza tra l’altro con la gran parte dei volumi liturgici cittadini a noi noti, alcuni dei quali – cfr. quelli ricordati nella scheda del Mss. Vari A 59/1 trovano stretti raffronti con questa coppia di codici medici; per quanto riguarda invece l’azione di trascrizione, è da notare che in entrambi i casi, pur a sedici anni di distanza (fatto decisamente inusuale ma non tanto assurdo da pensare a una svista del copista nell’apposizione della data) si esplicita il fatto che lo scriba risiedeva presso la famiglia committente, forse in due tappe distinte di un’itinerarietà tutta da recuperare nei dati.
Da evidenziare la figura araldica sul frontespizio, un po’ sforzata nella resa, ma scontornata in modo elegante.


Mss. Vari B 114

Officium mortuorum, e altri brani liturgici, [1450-1455 ca.]


D (Dilexi) con Cristo ascolta un supplice coronato (David?) – c. 27v

Il codicetto venne commissionato da una confraternita religiosa reggiana, probabilmente dedita a funzioni di assistenza spirituale ai malati e a ritualità funerarie: la provenienza dalla città, oltre al colophon riportato nei dati codicologici, è evidente pure alla c. 32v, dove si citano “Grisante e Daria”; la destinazione si ricava dalla c. 31v, dove in un’orazione si ricordano “nostre congregationis fratres et sorores”, ciò che esclude un’esecuzione per committenze eventuali.
L’andamento stilistico del volume, importante e rara testimonianza della miniatura in città nel periodo attorno alla metà del XV secolo (la cronologia più probabile dovrebbe essere quella sul 1450-1455), è giocato sull’interpretazione in chiave gustosa e umorale di più alti e aulici prototipi di area lombarda: più che la bottega del “Maestro delle Vitae Imperatorum”, come avevo detto in un primo momento (cosa che poteva consentire – ma forse non giustificare – quella collocazione più precoce che avevo proposto), soprattutto certi fatti bembeschi (se si tiene presente la corretta cronologia dei primi due mazzi di tarocchi, a prima del ’50: cfr. I tarocchi 1999, pp. 20-21); questa traslazione, però, tiene a mantenere, soprattutto nel lessico impiegato nella definizione delle parti non figurate, un’impostazione ancora quasi trecentesca. I fregi rimandano invece subito all’ambito emiliano, più corposi di quanto non si riscontrino in area lombarda. È poi da notare la gamma cromatica, basata tutta su toni assai spenti stesi però in modo raffinatamente contrastato, che la foglia d’oro non riesce comunque a vivificare. A parte il dato coloristico, la situazione non è distantissima dai due Corali 17.A.132 e 17.A.133, di altrettanto sicura origine locale.
Da condividere, e anzi da ribadire con forza, appare l’accostamento tra questo volume della Biblioteca Panizzi e una miniatura realizzata per Busseto, con un Martirio di Santa Caterina, contenuta in un’aggiunta a un omiliario degli ultimi anni del ’400 che reimpiega materiale più antico (Zanichelli 1994a, pp. 34, 180).


Mss. Vari B 118

Cirillo Alessandrino, Thesaurus adversos haereticos, [1460-1470 ca.]


B (Beati) con fregio a bianchi girari lungo le metà dei margini interno e superiore – c. 1r

Il codice è un buon esempio di produzione umanistica della seconda metà del ’400 che impiega la tipologia dei bianchi girari accoppiata alla definizione del corpo della lettera in foglia d’oro; da notare l’aulicissima grafia. I confronti migliori, sia per i girari che per i putti reggistemma, nel loro andamento un po’ secco e disegnato, si instaurano, credo, con la produzione romana degli anni ’60-70.


Mss. Vari B 119

Biblia sacra, contenente l’Antico Testamento sino alla fine del secondo libro dei Maccabei, [1465-1475 ca.]


E (Et) – c. 319v

L’importante codice venne realizzato per un membro della famiglia Arlotti, il cui stemma figura nel bas-de-page del frontespizio; il più probabile a essere chiamato in causa è Buonfrancesco, vescovo di Reggio a partire dal 1477: se fosse davvero lui il committente, ciò daterebbe in ogni caso l’esecuzione del volume ante questa data, dal momento che lo stemma non è accompagnato dalle insegne vescovili; pur se riferita come sicura, come provenisse dalla lettura di un colophon, che non trova riscontro, la data secca 1476 data dal Semprini (Semprini 1925, p. 128) immagino sia da interpretare in questo senso. In ogni caso, anche basandosi sul solo esame formale, la datazione maggiormente verosimile è comunque quella dei tardi anni ’60 del XV secolo, o più probabilmente – considerando l’esecuzione in area latamente provinciale – del primo lustro dell’ottavo decennio.
Il miniatore che esegue l’unica iniziale figurata e gli interventi nei fregi con Scene del Genesi, e motivi animalistici pare essersi ispirato a quella vena della miniatura estense più espressiva, dalle campiture più sgranate e fisionomicamente aggrottata che fa capo a Giorgio d’Alemagna, anche se nel Frate leggente, c. 1r, si tiene ben presente il repertorio di Guglielmo Giraldi e della sua bottega nel corso di questo stesso settimo decennio; senza attingere a livelli eccelsi, queste miniature hanno in ogni caso alla base una forte coscienza artistica e una notevole pratica esecutiva. La parte più interessante dell’illustrazione sono però le iniziali; ne troviamo due a motivi fogliacei, quella piccola a c. 3r e quella enorme alla successiva: l’apparentamento è qui in generale al contesto ferrarese, più direttamente, forse, alle prove coeve (o di poco precedenti) dello stesso Giraldi, come i primi libri della Bibbia della Certosa (Mariani Canova 1995, pp. 79-105; Miniatura a Ferrara 1998, pp. 189-197, Bonatti); il nome del miniatore ferrarese entra in gioco anche nelle lettere che seguono l’altra tipologia, quella dei bianchi girari, particolarmente numerose nel volume, dal momento che queste ultime appaiono assai consonanti con quelle che troviamo eseguite qualche tempo prima nel Messale del Duomo di Vigevano, dove questa ancora ignota mano si trova a collaborare appunto con il Giraldi (Miniatura a Ferrara 1998, pp. 145-148, Mariani Canova).
Senza ricercare vicinanze forzate o comunque, forse, eccessive, è evidente che l’aulicità della commissione costrinse a un aggiornamento i miniatori locali, che – certo, coi propri mezzi – guardarono a quanto di meglio poteva offrire a Ferrara la decorazione libraria. Dato interessante se per Reggio Emilia, a cavallo del 1470, venne realizzato da Martino da Modena, figlio di Giorgio d’Alemagna, lo splendido Messale Zoboli, attuale ms. Palatino 851 di Parma (Miniatura a Ferrara 1998, pp. 236-238, Zanichelli; Cum picturis ystoriatum 2001, pp. 115-119, Zanichelli).


Mss. Vari C 27

Antonio Loschi, Commento alle Orationes di Cicerone, [1420-1440 ca.]


M (Magna) con Ritratto dell’autore – c. 1r

Il volume costituisce un bell’esempio di codice protoumanistico, di argomento retorico; infatti, se da una parte troviamo l’impiego di una scrittura già dilatata su strutture lontane dalla grafia gotica, e se l’autore, legato alla curia papale romana fu uno dei primi personaggi che si dedicarono con animo tutto moderno (cioè antico) allo studio della cultura classica, la decorazione è invece ispirata rigidamente ai prototipi della visione tardogotica padana, in un’area – quella bolognese – che sappiamo già da molti anni, grazie ai contributi di numerosi studiosi, rimarrà stabile nelle sue preferenze stilistiche fino a oltre la metà del secolo XV.
Nella fattispecie, il miniatore attivo sulla prima carta di questo volume rientra perfettamente nel panorama felsineo tra 1420 e 1430, in un periodo in cui alla grande lezione dei grandi autori preziosamente gotici, quali il “Maestro delle Iniziali di Bruxelles” o il “Maestro del Messale Orsini”, si sovrappongono altre istanze formali, in un panorama fortemente variato ma che mantiene tuttavia una sua facies, assolutamente non confondibile (Medica 1992, pp. 11-17). Il fregio rientra assai bene in quella “definizione naturalistica dei motivi vegetali in uso nei primi decenni [del ’400], divenuti ora più compatti e regolari” (Medica 1992, p. 17), e trova un confronto stringente con i codici del ’Maestro del 1428’ e con quelli di altri artisti del medesimo periodo che con questo più noto artista si trovarono a poter collaborare (si veda per esempio la serie dei mss. 334-340 della Biblioteka Jagiellonska di Cracovia: Medica 1992, pp. 17-18 e figg. 6-9). Per quanto riguarda poi la sezione figurata, non è possibile al momento un’attribuzione ad personam, o un raffronto cogente, ma è chiaro che la stessa scelta di un ritratto a mezzo busto in veste aulica avvicina il volume della Biblioteca Panizzi al medesimo contesto prima richiamato, confermando così sia la collocazione geografica che la cronologia. Da notare infine la scelta della carta, relativamente inusuale, in confronto alla pergamena, in un testo che di certo non poteva non mirare a essere considerato di un certo impegno, anche finanziario.


Mss. Vari D 19

Publio Ovidio Nasone, Opera, 1466


H (Hic) – c. 72v

Questo manoscritto costituisce uno dei pochi esempi della Biblioteca Panizzi di codice datato e sottoscritto; il suo copista infatti fu il noto erudito parmigiano Antonio Tridento (Affò 1789, I, pp. 259-263; Pezzana 1827, 2, pp. 202-207; Kristeller 1967, ad vocem), che lo eseguì nel 1466 (così pare almeno legittimo restituire il testo, che presenta una L abrasa – non ne è ben chiaro il motivo – tra le indicazioni MCCCC e XVI, c. 90v).
Al di là della provenienza del suo trascrittore, e della sua attuale collocazione, il volume si può comunque porre, con qualche probabilità di essere nel giusto, in area padana; nihil obstat, infatti, a un’esecuzione in zona emiliana per quanto ci mostra la decorazione: letterine in oro su fondo multicolore si accoppiano a un paio di esempi a bianchi girari di derivazione ferrarese, pur se realizzati a livello qualitativo non eccelso. Anche dal punto di vista cronologico, le sezioni miniate possono coesistere tranquillamente con la data sopra ricordata.


Mss. Vari E 27

Girolamo Preti, Liber summarie divisiones omnium titulorum institutionum legalium, 1459


C (Cum), con fregio intercolonnare a fusto oro-verde – c. 21v

Il piccolo codice, di scarsissima rilevanza artistica, è però prezioso testimone di un ambiente culturale. Il volume contiene una sorta di breve compendio dei temi trattati nelle Institutiones, compilato a Mantova da Girolamo Preti nel 1459; la copia della Biblioteca Panizzi ne costituisce l’unico testimone, trascritto con quasi assoluta certezza non da un copista professionista, ma dallo stesso Preti (per quanto non sia decisiva la formula impiegata nel colophon, infatti, la grafia pare orientare anche di per sé verso questa ipotesi). Lo scopo, per quel che si capisce dalla sottoscrizione, fu fissare in poche pagine uno schema riassuntivo di questo fondamentale testo giustinianeo; il beneficiario, per così dire, era assai illustre: Francesco Gonzaga, secondogenito di Ludovico (1444-1483).
Divenuto protonotario apostolico nel 1454, appena quindicenne fu sponsorizzato per la nomina a cardinale dall’illustre padre, che tra l’altro propalava che Francesco fosse di quattro anni più vecchio; l’occasione, ovvia, fu quella del Concilio per l’indizione della crociata contro i Turchi, quando Pio II e la sua corte risiedettero a Mantova, per molti mesi, assieme a tutti i più grandi nomi della politica europea; si può pensare allora che la scelta di seguire in quel periodo una serie di letture giurisprudenziali assecondasse il preciso intento di formare anche da questo punto di vista, assai importante, il giovane, che doveva essere chiamato a un impegno assai gravoso (la porpora gli venne assegnata in realtà solo due anni più tardi). Nei decenni seguenti, Francesco divenne una figura fondamentale per la curia papale, e venne coinvolto – da umanista e letterato quale poi divenne – in circuiti culturali di notevole rilevanza, dei quali fu protagonista fondamentale Andrea Mantegna. E proprio del grande pittore è il più bel ritratto di Francesco, conservato a Napoli presso le Gallerie di Capodimonte: qui viene ritratto non ancora cardinale, e la data dell’esecuzione potrebbe essere proprio quello stesso 1459 del codice della Panizzi; più avanti Francesco fu raffinato committente di codici miniati, fatto qui – però – non rilevante.
Per quanto concerne le miniature presenti nel volume, come detto, siamo davanti a un caso emblematico di come non tutti i manufatti realizzati per (o donati a) personaggi appartenenti a un contesto elevato, di corte, debbano necessariamente adeguarsi ad elevati prototipi artistici. L’impressione, infatti, è quella di un decoratore di basso profilo, che impiega tra l’altro – fatto non comune, a queste date, per codici di qualche impegno, e indicativo – anche la falsa doratura forse realizzata con l’orpimento, e segue un po’ confusamente un repertorio che va dai motivi a filigrana d’inchiostro arricchiti con fiorellini e cerchietti dorati, di origine ferrarese, a fregi a fiori blandamente naturalistici di milieu lombardo, fino al reimpiego di una tipologia strana, quella dei tralci di vite con grappoli sugosi ben in vista, che conosciamo in pochi esempi precedenti, il più importante dei quali è il noto Telesforo, ms. alfa M. 5.27 = Lat. 233 della Biblioteca Estense Universitaria di Modena, eseguito tra 1447 e 1450 per Lionello, signore di Ferrara (Miniatura a Ferrara 1998, pp. 85-87, Lollini; Dillon Bussi 1998); una derivazione diretta, pur non del tutto impossibile da escludere (a Mantova nel 1459 c’era anche Borso, fratello di Lionello, e depositario della grande biblioteca della famiglia), pare però ben improbabile.


Mss. Vari E 117

Ordo missae, [1450-1490 ca.]


U (Ubi) con fregi a barra sui margini, ghirigori in oro con fiori e stemma non identificato – c. 1r

Sono preziose le indicazioni che ci riporta questo codice: da esse veniamo a sapere che il volume non dovrebbe essere stato realizzato appositamente per un committente, ma acquisito – non sappiamo da chi – nel 1455, nel periodo del conclave seguito alla morte di Niccolò V, quello che eleggerà poi Callisto III. Le caratteristiche codicologiche rendono pienamente possibile che il volume sia stato trascritto in quello stesso anno, o nel periodo immediatamente precedente, a Roma, in mancanza di appigli documentari o annotazioni liturgiche rilevanti dal punto di vista della collocazione geografica o cronologica del manufatto, pur se la grafia parrebbe seriore.
La decorazione, invece, orienta verso un contesto differente, che si può precisare facilmente (me lo conferma Federica Toniolo) in Ferrara, o comunque in un’area da essa dominata nella cultura artistica della decorazione libraria; il lessico è ancora quello della Bibbia di Borso, ma le scelte compositive del fregio a barra riquadrante la pagina orienta verso tempi più avanzati, e verso quel contesto produttivo medio, che caratterizza per esempio contesti come i libri d’ore che furono licenziati nell’ultimo quarto del secolo XV dalla bottega di Evangelista da Reggio e dell’Argenta: certe caratteristiche di stesura sembrano suggerire per il volume della Biblioteca Panizzi una cronologia sul nono decennio.
Il codice è dunque interessante testimonianza di un ambito ancora poco noto della produzione libraria italiana: la produzione, standardizzata e slegata da una specifica richiesta di committenza, e dunque standardizzata, di codici manoscritti di facile mercato, come il libro d’ore, l’ordo missae, appunto, e altri volumi liturgici, privi di decorazione; quella stessa decorazione, sembra, che il nostro anonimo acquirente volle farsi eseguire in patria.


Mss. Vari E 121

Tabula per modum alphabeticum super omnia opera eximii doctoris s[an]cti Thome de Aquino, [1465-1475 ca.]


A (Abbatissa) con San Tommaso in cattedra e fregio di tipo ferrarese – c. 1r

Il codice contiene un compendio dell’opera omnia di san Tommaso d’Aquino, e non palesa alcun elemento decisivo, quanto a testo, grafia o struttura codicologica, che possa orientare verso una precisa collocazione, né dal punto di vista geografico né cronologico.
L’iniziale figurata di c. 1r, che solo probabilmente mostra San Tommaso in cattedra, è purtroppo di difficile leggibilità, sia per alcune lievi cadute di colore, sia soprattutto per il suo status, evidente, di lavoro non finito. Quel poco che ci rimane, comunque, credo sia sufficiente per orientare l’attribuzione verso il contesto ferrarese; la cronologia potrebbe assestarsi sul periodo a cavallo tra settimo e ottavo decennio del secolo XV: per un esempio, comunque, di livello qualitativo medio basso.


Mss. Vari F 12

Miscellanea di astronomia e astrologia, [1385-1450 ca.]


Uomo seduto (nato sotto l’influsso del Sole) – c. 73v

Il volume comprende una silloge di testi a tema astronomico e astrologico, di autori diversi e trascritta da più mani, che per la gran parte è possibile far risalire alla fine del XIV secolo; in questa sezione troviamo un’iniziale figurata e alcune decorate, che – o perché non terminate, o per la scadente situazione conservativa, e comunque per un’evidente e forte debolezza stilistica – non meritano particolari annotazioni, e non offrono parametri di qualche interesse ai fini di una datazione più precisa, o di una collocazione geografica; il contesto chiamato in causa è comunque quello dell’Italia settentrionale.
Di grande interesse, invece, l’ultima parte del codice, che con un certo agio si può porre nella prima metà del XV secolo: non per la scrittura, anche in questa sezione corsiva e priva di elementi caratterizzanti, quanto per il ricco e affascinante programma illustrativo. La serie delle scene segue questo criterio: per ogni astro (nell’ordine Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere e Luna), su due carte affrontate, troviamo da una parte la raffigurazione del nato sotto il relativo influsso, dall’altra le attività tutelate; la complessità del programma (non sorprendente, se si pensa alla grande attrazione delle arti visive per questi temi, dai codici astronomici delle opere classiche e poi di Basinio, ai rilievi del Tempio Malatestiano di Agostino di Duccio e bottega, giù fino al Ciclo dei Mesi di Palazzo Schifanoia, tanto per rimanere nel ’400), le scelte compositive assolutamente non banali, e la disomogeneità qualitativa (con momenti davvero notevoli e cadute piatte) potrebbero lecitamente far ipotizzare che il decoratore qui attivo abbia rifruito modelli più elevati precedenti, come per altro del tutto frequente in codici di questo genere, la cui complessità testuale rendeva quasi obbligatoria la scelta di replicare un programma iconografico eventualmente presente nel prototipo che si aveva davanti, copiando cioè la parte illustrativa né più né meno di quanto avveniva in parallelo per il copista e la parte scrittoria; ciò ci permetterebbe di giustificare il non eccelso livello esecutivo, ma al contempo di salvare quanto di non banale ci riserva questo manoscritto.
La temperatura formale è quella del fiabesco mondo del tardogotico spirante, a date che dovrebbero essere comprese negli anni ’40 del XV secolo; la contiguità con l’ambito pisanelliano, sia pure con ogni probabilità non assimilato ma appena orecchiato, non deve far però scordare che questa scelta appare comune in tutta la zona padana, dalla Romagna alla Lombardia, dal Veneto all’Emilia, e anche altrove; un’origine emiliana del volume non è quindi da escludere, ma verrebbe confermata più dall’attuale luogo di conservazione, se fossero noti meglio i passaggi nella storia del codice, che da dati stilistici.
Il bifolio mancante della sezione più importante, corrispondente alle cc. 75-76, è conservato alla Biblioteca Gambalunghiana di Rimini: in tutto e per tutto, sia come scelte iconografiche che stilistiche, corrisponde al resto del volume (Mariani Canova-Meldini-Nicolini 1988, pp. 173-175, Meldini).

Mss. Vari F 13

Antonio de’ Conti, De moribus studiorumque vita, [1490-1510 ca.]


C (Credunt) – c. 25r

 

Il piccolo, elegante codice venne forse realizzato a Bologna, città chiamata in causa dal fatto che l’autore, Antonio de’ Conti, fu legato per molto tempo alla cancelleria felsinea (Procaccioli 1983); risiedette però anche a Mantova. Il dedicatario – Bartolomeo Calco – è invece noto come esponente di spicco della corte sforzesca, caduto in disgrazia dopo la presa della città del 1499 ad opera dell’esercito di Luigi XII re di Francia (Petrucci 1973).
Il non ricco programma decorativo prevede delle brevi sezioni a filigrana d’inchiostro e fiori, di tipo ferrarese, in corrispondenza dello stemma collocato nel bas-de-page del frontespizio, e a mo’ di breve fregio, molto compatto, nella prima incipitaria a pennello. Le iniziali, invece, seguono la tipologia, ormai a queste date frequentissima ma resa un po’ banale, della mantiniana, con il corpo della lettera realizzato in modo da farne risaltare l’illusiva tridimensionalità, che viene però in parte spenta dal campo in foglia d’oro, del tutto uniforme; tutto ciò mi pare possa indicare una collocazione cronologica compresa nell’ultimo decennio del XV secolo, o al limite sforante verso l’inizio del XVI secolo.
La collocazione stabilmente lombarda dell’originale destinatario e la frequentazione mantovana dell’autore potrebbero anche far pensare a un’esecuzione in area lombarda, che però la tipologia dei fregi mi pare non supporti. Non è invece da escludere che la copia reggiana sia l’originaria versione di dedica: in questo caso si preciserebbe meglio la cronologia (ante 1499, come detto), e la localizzazione (certo, non solo ipoteticamente, Bologna, dal momento che nel testo, a c. 1r della lettera dedicatoria, si legge “Bononiae ubi praeter opinionem versor”).


Mss. Vari G 1

Officia, [1440-1450 ca.]


D (Deus) – c. 37v

Il codice, che prevede il programma iconografico tipico dei volumi contenenti gli officia, venne realizzato probabilmente negli anni Quaranta del ’400. Come si è accorto Aldo Galli, precisando il riferimento precedente all’area tra Emilia e Lombardia, la sua decorazione spetta a Bertolino de Grossi, artista di riferimento nella scena pittorica della Parma tardogotica (cfr. Galli 2004). Bertolino fu il responsabile degli affreschi delle cappelle Ravacaldi (1420-1430 ca.), Valeri (1432-1435 ca.) e del Comune (1440 ca.) nel Duomo di Parma, ed accanto a quest’attività lavorò come miniatore per un certo numero di manoscritti, principalmente per una committenza locale, come quella dei già citati Valeri. L’andamento stilistico trasla in forme meno eleganti e più massive, specie nei fregi, il repertorio lombardo, come avviene di frequente in questa area bassopadana; si riscontrano poi motivi repertoriali ad ampi fiorami, un po’ spampanati, che ritroviamo per esempio nei volumi collegati alla questione Guiniforte da Vimercate o in altre prove emiliane degli anni ’40, verso – ma su tutt’altro livello – Giovanni d’Antonio (Miniature. La Spezia, Museo Civico 1996, pp. 150-157, De Floriani), in una circolazione che include quindi anche Bologna e Ferrara. In attesa di sciogliere quella sigla A.M.O.N., dal significato oscuro, e forse acronimo, che ritroviamo anche nel celebre Breviario ms. Palatino 6 di Parma (di sicura origine ultima mantovana, ma forse principiato altrove), è comunque forse possibile ipotizzare una committenza reggiana o parmense.


Mss. Vari G 47

Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae, [1440-1450 ca.]


D (Deus) con San Saturnino, con fregio sul margine interno a corposi girari vegetali – c. 291r

 

La probabile esecuzione reggiana del volume, già ipotizzabile dal luogo attuale di conservazione in relazione alla costituzione dei suoi fondi, viene confortata anche dalla presenza, a c. 356r, dei testi liturgici relativi alla festività dei santi Crisante e Daria, rammentati anche nel calendario e dalla citazione nelle litanie di san Prospero e san Donnino; l’assenza di riferimenti alla Trasfigurazione, festività istituita ufficialmente nel 1457, orienta già di per sé verso una cronologia precoce, attorno alla metà del secolo.
Le iniziali decorate sono morfologicamente simili a quelle che troviamo in altri volumi locali, liturgici e non, soprattutto nel settimo decennio del ’400 (Mss. Vari A 59/1 e A 59/2; Corali 17.A.138, 17.A.141, 17.A.154), caratterizzate dal frequente impiego di motivi floreali particolarmente carnosi e del motivo dell’intreccio a stella a riempire il fondo della lettera incipitaria; nello stesso tempo, le scelte cromatiche e la stesura apparentano più strettamente questo repertorio alla produzione tra ’30 e ’40 in altre aree emiliane, così come i fregi del frontespizio del Breviario, che imbastardiscono motivi del tardogotico padano, specie tra Bologna e Ferrara (con l’uso della filigrana d’inchiostro arricchita da fiori e cerchietti dorati) con elementi a fusto più tipici dell’area lombarda. Con ogni probabilità, allora, non siamo davanti a un prodotto del periodo rinascimentale, come avevo proposto in prima battuta, fuorviato dalla constatazione che motivi decorativi simili si ritrovano a Reggio – zona di forte persistenza stilistica – fino a date assai avanzate (settimo decennio e oltre), ma davanti a uno dei pochi codici del secondo quarto del secolo che ci siano pervenuti dalla zona reggiana, forse degli anni ’40.
Le deboli iniziali figurate spettano in ogni caso anch’esse a una bottega locale, e si inquadrano bene nella produzione tardogotica padana della prima metà del ’400: certo, come per le sezioni solo decorate, proporre datazioni strette senza aver potuto ritrovare controprove certe è in questo contesto culturale, tra Reggio Emilia e Parma, molto rischioso.


Mss. Vari G 48

Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae, [1426-1450 ca.]


E (Ecclexia) – c. 21v

 

Il testo del codice, privo di calendario a differenza di quanto avviene in genere per i volumi di questa tipologia liturgica, non offre alcun indizio relativo alla sua cronologia e origine geografica, se non il ricordo nelle litanie di santa Daria, particolarmente venerata a Reggio; al di là di ciò, date le vicende che hanno portato alla costituzione della Biblioteca Panizzi, non è comunque improbabile una provenienza originaria locale.
Dal punto di vista stilistico, la decorazione appare di fattura assai debole, quasi artigianale, con un uso poco elegante della foglia d’oro e l’impiego di strutture cromatiche, e di tipologie di lettering, del tutto banali e non specificamente legate a un’opzione formale precisa; una certa, relativa, precocità cronologica viene suggerita dall’uso del motivo “a spiga”, anziché a cerchietti, nella decorazione a foglia d’oro dei brevi fregi delle iniziali.


Mss. Vari G 157

Sermones in Evangelia totius anni, [1335-1345 ca.]


C (Cum) con breve fregio – c. 25r

E (Erunt) con fregio a motivi vegetali – c. 1r 

Il manoscritto presenta una decorazione che a prima vista si può collocare nell’area della miniatura bolognese, per l’impiego di tipologie del tutto tipiche nelle due lettere e nel fregio del frontespizio, a date che dovrebbero collocarsi negli anni ’30-’40 del XIV secolo. Certe cromie, ma soprattutto l’andamento squadrato dei bordi, potrebbero però anche parlare a favore, più che di Bologna in senso stretto, di contesti dalla decorazione libraria felsinea influenzati, come le sezioni non figurate di alcuni manufatti liturgici veneziani del quarto e dell’inizio del quinto decennio (Mariani Canova 1990, pp. 180-187; Marcon 1990, pp. 248-257).
Poco probante, mi pare, la tabula paschalis presente nel volume: trascritta su una porzione di pergamena distinta dal resto del supporto del volume, fu incollata successivamente a formare un “finto bifolio”.


Mss. Vari G 164

Ugo di Strasburgo, Compendium theologicae veritatis, [1451-1475 ca.]

C (Celestis) – c. 95r

 

Il codice appare di elegante fattura dal punto di vista scrittorio, ma la decorazione si limita a poche letterine in oro su fondo colorato, la cui tipologia è del tutto comune; si può ipoteticamente azzardare un’origine norditaliana, e una cronologia compresa nella seconda metà del ’400, forse nel terzo quarto del secolo.

 

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